Il ricordo dei morti: el murtori, luogo di ricordi e di storia

Orgoglio santangiolino
Terza parte (sempre con Giovanni): dai Bolognini ai martiri della Resistenza.
La prima parte la trovate sul numero 1 febbraio-marzo del 2022,
la seconda parte sul numero 2 di maggio-giugno

di Emanuele Maestri


Nella terza parte del viaggio, io e Giovanni raccontiamo i preti santangiolini. Lo facciamo in prossimità della festa della Commemorazione dei defunti, periodo del doveroso ricordo di chi ci ha preceduto e ci ha guidato, educato, formato secondo i valori universali del cristianesimo. Un ricordo che dà nostalgia, sentimento che non è un tornare alla vacua rassegnazione di ciò che non può essere più ma una carezza al cuore che tocca l’anima, il pensiero, l’intelligenza umana, perché scava nella memoria, nel cuore dei tempi e nella vita nascosta di ognuno di noi. Nostalgia che è facoltà innata dell’anima, sentimento originario che dà copiosi frutti intimi e che permette di trovare la forza per andare avanti, come singoli e comunità.

“Papà quanti preti che ci sono qui….”.
“Giovanni, i preti che riposano in questa cappella sono un pezzo di storia della comunità, perché nel passato, più di oggi, il sacerdote fu un punto di riferimento, un animatore sociale. Il primo a essere sepolto qui fu don Bassano Dedè, l’ultimo, morto durante l’epidemia covid, don Bassiano Travaini”.
“Interessante la storia di monsignor Dedè che mi hai raccontato…”.
“Lo è davvero, Giovanni: fu un personaggio minore del Risorgimento nazionale, ma di primo piano in quello lodigiano e lombardo. Oltre a lui, qui, sono sepolti altri tre parroci”.
“Chi sono tra quelli che vedo?”.
“Vedi, Giovanni, per capire chi sono i parroci santangiolini c’è un trucco: se il nome è introdotto dal titolo di monsignore, beh, quello fu un parroco, che in santangiolino diventa “prevoste”, dall’italiano prevosto (erroneamente parecchi santangiolini in italiano non usano il termine, pensando all’italianizzazione di un vocabolo dialettale). Il sacerdote che guida la comunità cittadina nella parrocchia della Basilica ha, infatti, questo titolo, che si trova solo per le chiese prepositurali, qui in Lombardia. I prevosti, infatti, erano a capo delle pievi più importanti del Ducato di Milano. Questo ci ricorda che Sant’Angelo, con il suo castello, il suo conte, la sua prepositurale, aveva un legame diretto con Milano, con dominio su un territorio, il santangiolino appunto. Una preminenza, quella del prevosto santangiolino, che era ben visibile poiché vestiva da vescovo, con anello, pastorale (che precisamente si chiama, per i monsignori, ferula) e mitria”.
“Cos’è la mitria?”.
“La mitria, Giovanni, è il copricapo che il vescovo usa nelle occasioni solenni e che prima del Concilio Vaticano II usava anche il prevosto di Sant’Angelo”.
“Ho capito! Allora sulla lapide vedo con questi titoli tre sacerdoti: monsignor Angelo Raffaini, monsignor Giuseppe Molti e monsignor Antonio Gaboardi”.
“Perfetto: il successore di monsignor Dedé fu monsignor Angelo Raffaini, prevosto per diciannove anni (dal 1892 al 1911), il quale continuò l’opera caritatevole e d’impegno sociale del predecessore; dopo il periodo interventista nella vita amministrativa di don Dedè, con lui, ci fu un periodo in cui i cattolici impegnati nell’amministrazione comunale ebbero una certa autonomia: a tal riguardo primeggiò la figura dell’ingegner Rozza. Vediamo un po’, Giovanni, se ti ricordi quando ho nominato l’ingegner Rozza?”.


“Sì, papà: ricordo che hai nominato l’ingegner Rozza quando mi hai spiegato chi era Semenza, quello che riposa nel sarcofago all’ingresso del murtori”.
“Esatto, Francesco Rozza fu un personaggio di primo piano per Sant’Angelo, dal 1842 sino alla morte nel 1898. Nacque, nel 1813, in una famiglia santangiolina benestante e cattolica e questo gli assicurò la possibilità di studiare, di conseguire il dottorato in matematica e di diventare, a 22 anni, ingegnere civile. Dal 1842 fu deputato comunale per l’amministrazione austriaca dalla quale si dissociò dopo aver abbracciato l’ideale liberale. Seguì sempre il “suo” Papa-Re, Pio IX: con lui fu prima liberale e in opposizione agli austriaci, poi per l’unificazione della Penisola. Fu coerente sino alla morte, sempre clericale convinto. Ebbe un ruolo attivo durante le Cinque Giornate di Milano: il 19 marzo del 1848 accorse in soccorso degli insorti dopo aver radunato circa trecento santangiolini con i quali disarmò i gendarmi e i finanzieri di stanza a Sant’Angelo (sì, perché anche a Sant’Angelo c’era un distaccamento della Guardia di Finanza). I santangiolini, con le armi in pugno, presero parte agli scontri che avvennero in Milano all’altezza di Porta Lodovica la sera del 21 marzo, con l’aiuto di rinforzi pervenuti da Chignolo Po. L’azione militare gli permise di diventare capitano; rientrato a Sant’Angelo, per conto dei piemontesi, resse l’amministrazione comunale sino al ritorno degli austriaci. Dopodiché dovette rifugiarsi in Svizzera con Pandini e Semenza; lì conobbe Giuseppe Mazzini: ascoltando i suoi discorsi, si accorse che quella non era la sua parte. Tornato a Sant’Angelo, insieme a don Bassano Dedè, fu protagonista di numerose battaglie per la difesa del santangiolino: fu subito rieletto deputato dell’amministrazione comunale, carica che mantenne sino al 1859 quando gli austriaci se ne andarono, una volta per tutte, dalla Lombardia. Giocò un ruolo determinante anche nei primi anni del Regno d’Italia, quando sindaco di Sant’Angelo fu Raimondo Pandini, che anzitempo dovette rimettere il mandato, stante la forte opposizione dei clericali, guidati appunto da Rozza. Divenne anche deputato provinciale e fu ingegnere comunale per molti anni. Contribuì alla realizzazione della linea tranviaria Sant’Angelo-Lodi-Crema e alla costruzione delle strade provinciali Melegnano - Sant’Angelo - Corteolona e la Sant’Angelo – San Colombano. Ma l’opera che a distanza di centocinquantasette anni rimane ben visibile è l’orologio a quattro facciate che dalla sommità del campanile scandisce il tempo dei santangiolini, perché nel paese mancava l’orologio pubblico, o meglio l’esistente al di sotto delle campane era ammalorato e aveva un solo quadrante. Fu protagonista della politica santangiolina dal 1848 sino al 1898, per ben cinquant’anni, dalle Cinque giornate milanesi a quando, sempre a Milano, con la questione sociale, con i moti popolari milanesi per il pane, le cannonate di Bava Baccaris fecero numerose vittime”.
“Va bene! Poi, papà, chi abbiamo dopo monsignor Raffaini come prevosto?”
“Chi abbiamo? Il successore non è sepolto qui. Dopo monsignor Raffaini fu parroco dal 1911 al 1920 monsignor Mezzadri, originario di San Rocco al Porto, che l’agosto del 1920 venne consacrato, qui a Sant’Angelo, vescovo di Chioggia. A lui è dedicata una via vicino alla chiesa di Santa Maria. Fu sempre sensibile alle problematiche sociali e lavorative della comunità, fu un attento attuatore della “Rerum Novarum”, enciclica sociale di papa Leone XIII. Dopo di lui fu prevosto monsignor Enrico Rizzi, dal 1920 al 1944. Fu sepolto in Basilica, a imperitura memoria, perché diede il via all’abbattimento della vecchia chiesa prepositurale di Sant’Antonio e alla costruzione dell’attuale, che durò dieci anni (dal 1928 al 1938) e che venne consacrata in concomitanza con gl’imponenti festeggiamenti per la beatificazione di Madre Cabrini; ne iniziò, inoltre, l’abbellimento interno con artisti del calibro del Taragni; guidò la comunità santangiolina in anni difficili, quelli del post Grande Guerra, della presa del potere dei fascisti, del Secondo conflitto mondiale con la comunità in ansia per i tanti giovani avviati ai fronti di guerra”.


“E dopo di lui?”
“Dopo eccoci a monsignor Giuseppe Molti, prevosto per diciassette anni (dal 1944 al 1961), il quale profuse impegno nella pastorale giovanile attraverso la costruzione dell’oratorio di San Rocco, il salone-teatro dell’oratorio San Luigi; nel culto attraverso la costruzione della chiesa di Santa Maria Regina, l’elevazione a parrocchiale della chiesa di Santo Stefano a Maiano, la riapertura al culto dell’oratorio di san Zeno a Graminello; nell’abbellimento, con affreschi dell’Arzuffi, dell’imponente e nuova prepositurale, elevata alla dignità di Basilica Romana Minore da Papa Pio XII nel 1950; nel costruire una struttura moderna, più comoda, per gli ospiti dell’ospizio, dove si trova ora in via Cogozzo; nell’ampliare il vecchio ospedale Delmati. I santangiolini lo ricordano ancora bene. Era originario di Lodi e iniziò il suo ministero il 18 febbraio 1944, in piena guerra, sotto la circoscrizione territoriale della Repubblica di Salò. Si trovò una comunità con famiglie disperate perché molti giovani erano al fronte, alcuni sbandati, altri aggregati alle formazioni partigiane. La sua guida fu determinata, ferma e coraggiosa: non si intimorì e si diede a un’opera di incoraggiamento e di riarmo morale con assistenza ai prigionieri e ai bisognosi.
“Che storia affascinante: si vede che il prete era un vero faro, un punto di riferimento per tutti”.
“È così, è così. Per analizzare bene il ruolo del sacerdote nella comunità civile dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, don Giulio Mosca (Ricordi don Giulio, Giovanni? Era quel sacerdote che incontravamo a Bellaria, al mare, in estate, e ultimamente alla casa di riposo quando andavamo a messa alla domenica…sì, sì, proprio lui, quello con la Panda vecchio modello), da fine ricercatore storico, ci ha lasciato una monumentale ricerca storiografica che tratteggia la Chiesa laudense e i suoi preti dal titolo “Cento anni di vita e battaglie religiose e civili delle Parrocchie del Lodigiano”, nonché una raccolta molto agile da leggere sulla storia di Sant’Angelo, dal titolo “Pagine di storia santangiolina”. Molto interessante, in questa raccolta, è la figura di padre Domenico Savarè, un personaggio molto affascinante che legò la sua storia a quella santangiolina del Risorgimento, in simbiosi con monsignor Dedè. Padre Savaré non fu sepolto qui a Sant’Angelo, ma nella Basilica di Sant’Andrea all’Aventino a Roma, in odore di santità. Su di lui ci torneremo un’altra volta”. Il prete dalla fine dell’Ottocento e sino agli anni Novanta del secolo scorso, Giovanni, era una guida a tutti gli effetti, spirituale, morale e di aiuto materiale per gl’indigenti. Era una persona istruita che affiancava le famiglie in cui nessuno aveva la capacita di leggere e scrivere, attraverso la lettura delle lettere dei parenti lontani, dei figli al fronte e con raccomandazioni per un posto di lavoro, nelle attività economiche e imprenditoriali riconducibili al mondo cattolico (banche, aziende private e pubbliche). Giovanni, apro una breve parentesi per raccontarti della singolarità dei santangiolini. Ebbene, nel nostro dialetto esiste un termine singolare per indicare chi è scaltro, furbo. Il vocabolo è “faruffèn”, il quale trae origine dal comportamento che tenne don Pietro Faruffini, prevosto santangiolino durante il periodo della Repubblica Cisalpina quando i francesi occuparono l’Italia: appunto un comportamento furbo, scaltro, opportunistico per sopravvivere all’anticlericalismo dei rivoluzionari guidati da Napoleone. Ma torniamo all’ultimo prevosto qui sepolto, ossia monsignor Antonio Gaboardi, guida della comunità dal 1961 al 1985. Di lui ho un ricordo nitido: fu chiaro e profondo predicatore, sottile professore, uomo dalla vastissima cultura, non mancò di essere attento ai sofferenti e ai bisognosi, attraverso la fondazione della locale sede della Croce Bianca e l’impulso dato alla costruzione del nuovo ospedale”.
“Papà, vedo altri nomi, alcuni con foto (don Giuseppe Baiocchi, don Pasquale Pozzoli, don Luigi Pasetti, don Domenico Grazioli, don Alessandro Mantovani e don Ferruccio Ferrari), altri senza, semplicemente elencati in una lapide laterale”.
“Alcuni non li ho mai sentiti nominare. Ti posso dire, però, che ho conosciuto bene tre di loro: don Ferruccio Ferrari, don Domenico Grazioli e don Alessandro Mantovani. Don Ferruccio lo ricordo negli ultimi anni di vita, quando fece ritorno a Sant’Angelo e celebrava la messa anche a Santa Maria dove facevo il chierichetto. Beh, di lui ricordo che diceva messa in venti minuti, che voleva indossare solo i paramenti liturgici antichi e che aveva una predilezione per i santi. Una volta gli chiesi il perché e lui mi rispose che i santi, peccatori come noi, con la loro vita, sono esempi pratici per meglio comprendere la grandezza di Dio, difficilmente afferrabile dalla mente umana: mi fece capire che se si comprende la bontà dei gesti concreti di un santo si è più vicini a Dio. Fu professore di matematica a Lodi e anche tuo nonno Giovanni, da Guardamiglio, lo ricorda professore dalle grandi capacità divulgative. Don Domenico, invece, fu un prete a me molto vicino perché per anni feci il chierichetto anche in Basilica e lì, lui era prefetto di sacrestia. Abbiamo sempre avuto un bel rapporto. Appena diventai finanziere – lo ricordo come fosse oggi – lo andai a salutare in sacrestia e mi disse: “Emanuele, nella tua non facile professione, ricorda di essere inflessibile con i venditori di morte (spacciatori, trafficanti di essere umani e via elencando) ma misericordioso con chi sbaglia in buona fede o evade per poter mangiare”. Beh, questo suo consiglio, ancor’oggi, mi accompagna nella mia vita professionale. Don Sandro, per quasi vent’anni, è stato il cappellano della Casa di Riposo, brillava per la sua dedizione ai malati, soprattutto terminali e anche per la pericolosità nel condurre la sua macchina (prima una 126 e poi una fiat 500) per le vie di Sant’Angelo”. “Giovanni, sui nostri sacerdoti siamo andati un po’ lunghi, però meritavano un racconto completo. Così facendo, scherza scherza, abbiamo raccontato i preti santangiolini che per più di centocinquant’anni hanno guidato il “gregge” santangiolino”.