Il ricordo dei morti: el murtori, luogo di ricordi e di storia

Orgoglio santangiolino
Seconda parte (sempre con Giovanni): dai Bolognini ai martiri della Resistenza.
(La prima parte la trovate sul numero 1 febbraio-marzo del 2022)

di Emanuele Maestri


Continua il viaggio nel cimitero della nostra Sant’Angelo, per riscoprire la storia locale, comunitaria e personale.
«Giovanni, mi pare che sino ad ora hai capito: ti va di continuare?».
«Sì, papà, andiamo avanti. Guarda, guarda che tomba strana. Si legge poco, però leggo bene il nome di Giuseppe Bondioli».
«Giuseppe Bondioli fu sindaco di Sant’Angelo dal 1896 al 1900 e progettò il cimitero. Ora andiamo dall’altra parte del vialetto. Guarda lì... c’è una lapide... leggi... ».

«Ci sono quattro foto; i nomi sono: Flaim Mario, Polli Battista, Daccò Antonio e Biancardi Umberto. C’è scritto anche: 6a Brigata Giustizia e Libertà – All’oppressione preferirono rischiare la vita ed anche morire. A ricordo di tutti i santangiolini che resistettero alla barbarie nazifascista».
«Beh, non mi sembra che dobbiamo aggiungere molto: furono quattro uomini che morirono, per mano dei nazifascisti, durante la Seconda guerra mondiale. Morirono per la libertà: preferirono perdere la vita piuttosto che sottomettersi all’oppressore. Mario Flaim fu un trentino, tenente degli Alpini, che trovò la morte, in combattimento, a Intra (Lago Maggiore), nel corso di un pesante rastrellamento dei tedeschi e dei repubblichini; s’impegnò, insieme al cugino tenente medico dell’Esercito, Antonio Soini, a organizzare la fuga dei prigionieri di guerra inglesi; in un’occasione riuscì a fuggire indossando la divisa della Guardia di finanza repubblihinna, datagli da un certo finanziere Passariello; nell’aprile del 1945 gli fu intitolata la divisione garibaldina nata dalla fusione delle brigate Valgranda e Cesare Battisti. Battista Polli e Antonio Daccò - renitente alla leva della Repubblica Sociale il primo, vigile del fuoco il secondo - furono due santangiolini che decisero d’inquadrarsi nelle file partigiane di Giustizia e Libertà; trovarono la morte nell’Oltrepò a seguito di un rastrellamento nazifascista. Diversa è la storia di Umberto Biancardi, deportato in Germania a Dachau il 5 agosto del 1944, dopo un controllo della polizia segreta nella sua abitazione e nella tipografia di cui era titolare, dove si stampava l’edizione milanese del giornale clandestino antifascista Risorgimento Liberale; nel campo di concentramento, il 25 febbraio 1945, trovò la morte; in via Umberto I, in centro a Sant’Angelo, di recente, è stata posta una pietra d’inciampo, a imperitura memoria».


Accanto alla lapide dei quattro martiri della libertà, ecco la tomba di monsignor Nicola De Martino, grande sacerdote, innamorato di Sant’Angelo e dei santangiolini, che spese l’intera vita per la comunità, contribuendo alla ricerca storica del borgo (strano caso quello santangiolino, perché tra i più appassionati storici locali si annoverano due santangiolini con radici pugliesi: don Nicola, appunto, il cui padre Giuseppe, oste dell’Osteria della Torre, era apulo e Angelo Montenegro nativo di Margherita di Savoia, in provincia di Foggia). Per tratteggiare la sua figura non bastano di certo due o tre righe: ecco perché, nei mesi di maggio e giugno del 2004, gli dedicai un ritratto sul mensile parrocchiale La Cordata, confluito, poi, nel libro “Alla ricerca di Dio...”.
Proseguendo, una volta passata la croce centrale del campo A, avvicinandosi alla cappella della famiglia dei conti Bolognini non si può non notare una statua di Madre Cabrini, riproduzione fedele di quella di piazza XV luglio, posta sopra la tomba del maestro Achille Mascheroni, altra memoria storica santangiolina.
«Papà, guarda che bella statua della madre Cabrini: è identica a quella della piazza in cui si fa il volo delle colombe».
«Esatto, Giovanni: qui c’è la tomba dell’eclettico Achille Mascheroni, cabrinologo per antonomasia, innamorato della Santangiolina d’America per cui spese parte della sua vita di intellettuale per farla conoscere nel Lodigiano e oltre, in tutta Italia, attraverso una ricerca attenta, sempre documentata, comprensibile a tutti. Rese la figura della Madre, affascinante ai più. Fece molto per dar vita alle celebrazioni del Luglio cabriniano che trovano l’apice il 15, con il volo delle colombe all’angelus e con la processione serale. Partecipò al musichiere della Rai e, negli ultimi anni di vita, alla prima edizione dei “Soliti Ignoti”, condotta da Fabrizio Frizzi».
A pochi passi dalla tomba di Mascheroni eccoci alla cappella della famiglia nobiliare degli Attendolo Bolognini, cappella con funzione di chiesa, progettata sempre dal Bondioli, che rappresenta, insieme alle quattro cappelle poste a destra e sinistra della stessa, la parte più antica dell’intero complesso.
«Papà chi sono gli Attendolo Bolognini?».
«Giovanni la storia è molto lunga. Facciamo un riassunto. I Bolognini furono una famiglia patrizia; il capostipite fu Gian Matteo detto il Bolognino per le origini bolognesi, il quale condusse gran parte della propria esistenza nel nostro castello (che ottenne come ricompensa diventandone feudatario e in cui trovò la morte nel 1460), dopo esser stato prefetto d’armi a Pavia per i Visconti e, successivamente, per Francesco Sforza, dal quale ottenne l’onore di aggiungere al suo nome il titolo di Attendolo. Dal conte Gian Matteo si svilupparono tre linee di discendenza: due estinte; la terza, invece, si divise a sua volta in tre rami dei quali solo uno è ancora in vita. Parecchi membri della casata furono ambasciatori nelle corti reali, imperiali e ducali; altri si distinsero nelle armi, specie al servizio degli spagnoli ai quali furono fedelissimi. La storia di Sant’Angelo, dal Cinquecento ai primi anni del XX secolo, è legata ai Bolognini. Gli unici antagonisti, disturbatori della loro signoria sul territorio Santangiolino, furono i membri della famiglia Barasa (spagnoli d’origine) che si stabilirono in borgo San Rocco sul finire del XVI secolo.


I Bolognini abbandonarono il maniero a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il castello visse un periodo di degrado: il cortile gentilizio - pensa un po’ - rimase aperto a tutti e per quarant’anni servì da campo di gioco per i ragazzi. L’ultimo Bolognini (per parte materna) che ebbe a cuore il castello fu il conte Gian Giacomo, senatore del Regno d’Italia, che lo restaurò e riportò ai fasti trecenteschi. Nemmeno uno spaventoso incendio, che divampò nel 1911 dal lato ovest in cui era ospitato uno stabilimento di lavorazione della seta, fermò l’opera del conte. Il restauro riprese con più vigore l’anno successivo e neanche la sua morte l’arrestò, poiché la moglie, la contessa Lydia Caprara Morando Bolognini, lo portò a compimento. A lei e al conte Gian Giacomo dobbiamo riconoscenza, perché la bellezza paesaggistica della nostra borgata è data anche dall’imponenza del maniero che con lungimiranza e amore riportarono ai fasti medievali».
Terminata la spiegazione, svoltiamo a destra e, dopo una sosta da nonna Bassanina, giungiamo alla cappella parrocchiale.
«Papà, quanti preti eh?».
«Davvero Giovanni. Qui sono sepolti i prevosti della nostra comunità e gli altri sacerdoti che espressero la volontà di riposare in terra barasina, da don Giuseppe Manenti a don Bassano Travaini, quest’ultimo vittima del covid. In evidenza vediamo, Giovanni, la lapide funeraria di monsignor Bassano Dedè, ultimo prevosto del Lombardo Veneto, primo del Regno d’Italia, due volte in galera per amore di Papa Pio IX, intransigente sacerdote che non omaggiò Garibaldi al suo passaggio santangiolino, che si caratterizzò per i soventi scontri con il primo sindaco del Regno d’Italia Raimondo Pandini, padre spirituale della nostra madre Cabrini (se il seme della fede e la crescita della stessa si deve alla famiglia e all’azione dello Spirito Santo, al Dedé si deve l’intelligenza di aver compreso che quella fragile bimba aveva in sé grandi potenzialità, spirituali e materiali, che l’avrebbero portata ben oltre il borgo affacciato sul Lambro: e così fu!) e ideatore di non poche opere a sostegno dei più bisognosi (la Congregazione della Carità, l’ospizio per gli anziani detti vegion, l’ospedale cittadino con l’ausilio di Siro Delmati, il primo oratorio per i giovani vicino alla chiesa di San Bartolomeo). Fu un vero animatore sociale per Sant’Angelo, di cui fu pastore e vicario foraneo per ben trentaquattro anni, dal 1857 al 1891. Fu un gigante del Risorgimento santangiolino»