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IL PONTE
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ANNO 7 - N. 4 (Versione web - anno 4 n.4) NUOVA SERIE SETTEMBRE 2003

Mestieri di una volta

I cordai

cordai
I Fratelli e Teresa Lunghi

Mani svelte e dita agili, che si muovono freneticamente ad attorcigliare la corda, che nasce, metro dopo metro, dal lavoro duro e certosino dei cordai di un tempo. Una lavorazione affascinante, che sa di antico, di facce umili, scavate dal freddo, di espressioni difficili oggi da ritrovare. Quella dei cordai è un’arte, fatta di rituali che si sono ripetuti negli anni, immutati, stagione dopo stagione. Ne è derivata, finché la storia l’ha mantenuta in vita, un’economia fragile, basata su paghe sempre troppo basse, su attività a conduzione familiare, dove i figli subentravano ai padri, fin tanto che il profitto è bastato. Poi, con la fine del secolo scorso, il ‘900, anche gli ultimi cordai rimasti hanno smesso, incapaci di competere con l’industria e con l’avvento delle fibre sintetiche che hanno messo fuori gioco la loro antica manifattura.

Quella tra i cordai e la tecnologia è una sfida strenua: le macchine l’hanno avuta vinta. Ad oggi resta soltanto il ricordo per i lunghi “santé” del quartiere di San Martino, dove gente semplice lavorava la corda, con gesti cadenzati e mai fuori posto, e con l’aria sottile che ogni tanto era spezzata dall’incitamento urlato a gran voce “mèna la röda!” (l’ordine di girare la ruota che permette di unire più fili di una corda).

I fratelli Francesco e Teresa Lunghi, classe 1924 lui, 1936 lei, sono figli proprio di quel quartiere, San Martino, che è un po’ la patria dei cordai santangiolini. Dietro la loro casa, in uno di quei cortili dove il tempo pare essersi fermato, c’è ancora il “santé”, usato fino agli anni Ottanta per fabbricare la corda, e che oggi si presta un po’ ad interpretare il ruolo di reperto d’arte artigiana. E’ Francesco Lunghi, durante l’intervista, ad anticipare la notizia: «Ho preparato una sorpresa, le faccio vedere dal vivo come si fa la corda». E in effetti sul “santé” è tutto pronto. Ci sono strani oggetti: una specie di uncino, “el garbìu”, al quale viene arrotolata l’estremità della corda, e per terra, poco distante, un cilindro di legno che sta in una mano. Il signor Lunghi lo afferra, sorride e spiega con pazienza: «Questo in dialetto “l’è el mas”, serve per arrotolare i fili, che formeranno poi, intrecciati, la corda». Alla fine del “santé” c’è una ruota, da cui partono quattro cordicelle  che confluiscono, all’estremità opposta, in un unico nodo attorno al “garbìu”. La ruota, in dialetto “l’è el ruden de fèr”, e al grido di “mèna la röda!”, questa comincia a girare, azionata dalla signora Teresa Lunghi.

Dall’altra parte il fratello Francesco comincia ad avanzare, in mano tiene “el mas”. Con movimenti puntuali e precisi, dalle sue mani nasce un cordone, frutto delle quattro cordicelle da cui si è partiti.

Fare la corda è un lavoro duro ma affascinante, vederla fare…è molto di più: si è come calati nella storia di Sant’Angelo, i rumori e i profumi sono quelli di un tempo. Le sensazioni uniche. E’ davvero un’arte, carica di cultura, impressa nei volti e negli sguardi dei vecchi cordai di una volta.

I fratelli Lunghi  ricordano gli anni passati come fosse ieri, estati ed inverni, a realizzare chilometri e chilometri di corda. La materia prima che usavano era la “sisal”, una fibra naturale proveniente, dice sorridendo il signor Francesco, «dalla Tanganica», e il cui nome a dir la verità è preso in prestito da una fabbrica di Piacenza che la trasformava da materia prima in cordame. La “sisal” serviva per legare i covoni di frumento nei campi, e una volta che questi erano stati preparati, veniva raccolta la corda di recupero e portata ai cordai. Il meccanismo funzionava più o meno così: la “sisal “ veniva raccolta, portata ai cordai, che la lavoravano, ne traevano nuova corda e la rivendevano a quelli che gliela avevano procurata. La corda era venduta poi per diversi usi: per l’agricoltura, per gli imballaggi delle merci trasportate su rotaia ed addirittura per la coltivazione delle cozze.

Durante la seconda guerra mondiale i Lunghi invece usarono la canapa, perché i commerci bloccati impedivano proprio l’importazione della fibra che poi sarebbe stata ribattezzata “sisal”. Dagli scarti di quest’ultima, le mani abili dei cordai estraevano lunghe corde, che venivano poi nuovamente attorcigliate fra loro per dare consistenza e resistenza alla corda finita.


I cordai della famiglia Trabucchi
L’attività dei Lunghi comincia nel 1933 con il capostipite Domenico, classe 1893 che, sposato con Rosa Rognoni (1897), si ingegna a sbarcare il lunario producendo corde, dopo aver lavorato precedentemente al “Fabricòn” e come ambulante nei paesini di campagna attorno a Sant’Angelo. Il figlio Francesco comincia a fare il cordaio a 9 anni, proprio nel 1933, mentre la figlia Teresa, inizia un po’ dopo, a 11 anni. Il “santé” è impiantato originariamente nell’attuale via Cordai, in affitto da Antonio Cantoni cui andavano annualmente 60 lire. Dal 1955 invece i Lunghi comprano un appezzamento in un cortile di via San Martino, dove sono tuttora, e da lì l’attività prosegue fin quasi agli anni Novanta. Il fondatore della piccola impresa familiare, il signor Domenico, soprannominato “el pülga” o “el viulén” per via della sua passione per il canto di musiche sacre, continuerà a lavorare fino all’età di 92 anni. Morirà nel 1988. Sarà lui, nei primi anni ‘60, a farsi dare dall’allora parroco monsignor Giuseppe Molti il vecchio motore dell’organo della Basilica, e ad adattarlo alla “röda per la corda”. Uno strappo alla regola, un regalo all’innovazione in un mestiere che però rimane intimamente legato alla tradizione. L’aneddoto è ricordato dal signor Francesco, e mentre lo fa gli si scorge in volto un sorriso.

Spesso i figli continuavano l’attività dei padri, è successo anche ai Lunghi, ma d’altra parte «… non c’era altro, o si andava nei campi, o in fabbrica, o a fare il muratore - continua il signor Francesco -, e comunque il cordaio era un lavoro povero.

Gli ultimi frammenti del passato sono dedicati alle scene di vita quotidiana. Il lavoro cominciava ad aumentare da luglio, agosto, in corrispondenza con il taglio del frumento, e si lavorava con un buon ritmo per l’autunno e l’inverno. Il cordaio era impegnato 10, 11 ore al giorno, dalle 6 della mattina fino a quando faceva buio, visto che l’attività era all’aperto, lungo i “santé”. E si lavorava tutti insieme, senza distinzione di ruoli ne di mansioni: c’erano uomini, donne, ragazzini di ritorno da scuola e anziani. Oggi nei cortili e per le strade di San Martino e della “Vignola”, riecheggia il rumore sommesso della tradizione, e come se non si fossero ancora rassegnati all’estinzione, i cordai conservano gelosamente le loro storie. La speranza è che almeno rimangano vive nella memoria.

                                            Lorenzo Rinaldi

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