Come si è già scritto più volte in queste pagine, nel Lodigiano si è manifestato un nuovo allarme ecologico. A Castiraga Vidardo l’azienda Ecowatt che gestisce un inceneritore per rifiuti, ha chiesto la quintuplicazione dell’impianto e l’autorizzazione a bruciare centinaia di tipologie di rifiuti diverse, tra cui i più nocivi e pericolosi. Il territorio ha reagito con forza alla richiesta sproporzionata. Per sostenere ancora di più le posizioni contrarie mi sono domandato quali ragionamenti razionali, e non emotivi, potessero sostenere le ragioni di un deciso “ no” all’ impianto.
Ho trovato risposta a questa domanda nella storia agricola, economica e sociale del nostro territorio lodigiano.
Per svolgere meglio il ragionamento ho diviso questo articolo in tre capitoli.
Partiamo da lontano.
(i primi 1000 anni)
Molti studiosi hanno descritto ed elogiato la fertilità e la ricchezza della terra lodigiana. Prima la civiltà celtica, poi l’esperienza romana che ha portato con le sue ville e la centuriazione, un ordinato mondo di lavoro agricolo. Dopo un periodo di decadenza dell’Alto Medioevo, dovuto alle invasioni barbariche, le grandi bonifiche, laiche e cistercensi, riportarono il territorio ad una situazione di fertile produttività.
Tutto questo ha portato a dire che il nostro territorio non si può definire completamente “naturale”, “selvaggio”, ma che è stato profondamente addomesticato e trasformato dall’uomo che lo ha adattato alle proprie esigenze di vita. Uno scambio, secondo gli studiosi, che ha migliorato l’ambiente senza stravolgerlo riuscendo a creare una terra fertile che ha dato benessere economico una generazione dopo l’altra.
Gli storici concordano nel dire che il Lodigiano, dalle avvenute trasformazioni in poi, ha vissuto per almeno 800 anni in un immutato benessere. Ha scritto Ercole Ongaro nel volume: “Il Lodigiano itinerari su una terra costruita (1989)”:
“ Il sistema dell’ agricoltura lodigiana , così come si è strutturato a partire dai secoli XII e XIII con la bonifica cistercense e lo scavo del canale Muzza è giunto sino al nostro secolo senza soluzione di continuità. “ L’ uomo simbionte che non domina la natura ma vi si relaziona in modo corretto” come dice Giovanni Haussmann: “da commensale” e aggiunge: “l’ uomo deve mettere anche lui radici nel proprio terreno”. Questo tipo di approccio ha consentito al mondo agricolo lodigiano di perpetuarsi per secoli. Diverso è il punto di vista se si guardano gli aspetti delle condizioni di lavoro e di vita nelle cascine e tra i campi, ma questo è un altro discorso.
Il cambiamento
Il mutamento del nostro territorio è iniziato in modo deciso dal secondo dopoguerra. Passato il periodo tragico e devastante delle due Guerre Mondiali, dal 1950 il rapporto con il mondo naturale ha preso vie molto diverse. Era indispensabile ricostruire, ma la ricostruzione ha preso nuove vie. Continuiamo a leggere Ercole Ongaro: “ A partire dal Secondo dopoguerra è iniziato lo smantellamento del compatto sistema lodigiano che era venuto costruendosi. Un intenso rapporto di simbiosi tra l’uomo e la terra nel corso degli ultimi otto secoli. Tra gli anni ‘50 e ‘70 la cascina si è gradualmente ridotta da centro di insediamento urbano e di produzione a semplice unità produttiva con manodopera sempre più esigua”.
Nel periodo del cambiamento quindi abbiamo visto un mondo naturale in difficoltà, un’agricoltura in trasformazione e in difesa nei confronti dell’avanzare del mondo industriale, che ha portato benessere diffuso, in cambio dell’abbandono dell’equilibrio uomo ambiente.
Quindi tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 il progressivo spopolamento della cascina è stato accompagnato da una parallela introduzione delle macchine agricole. La manodopera in eccesso si è trasformata in forza lavoro operaia accentuando il pendolarismo dai nostri paesi verso le città.
Con il boom economico è iniziata anche la trasformazione industriale del territorio. Nuove strade, nuove infrastrutture, creazione di aree industriali e commerciali. Tutto questo ha portato ad una rottura dell’equilibrio con la natura. La storia dell’ inquinamento del fiume Lambro (in quegli anni fiume più inquinato d’Italia) è emblematico di tutto ciò. Ma potremmo citare anche la Gazzera sempre legata al fiume, la centrale a carbone di Tavazzano le industrie chimiche insediatesi nel territorio, le discariche di Vizzolo Predabissi e di Cavenago, le vicende dell’area ex Gulf di Maleo e tanti altri episodi di utilizzo sconsiderato dell’ambiente. Tuttavia la situazione non ci è mai parsa drammatica. Si trattava di aggressioni all’ambiente che avevamo la fiducia di contrastare e risolvere.
Nuovo cambiamento: l’oggi
È evidente, a questo punto, che non siamo più nella storia, ma nella cronaca e che si sta scrivendo una nuova pagina sul Lodigiano, completamente diversa dalle precedenti. All’ utilizzo improprio del territorio, sperimentato almeno fino agli anni ‘80, ‘90 si è sostituito un vero e proprio assalto. Il territorio ormai non è più visto per le sue potenzialità agricole, ma come spazio da sfruttare per le più diverse installazioni. Non a caso, dal 2000 in poi, si è cominciato a parlare di consumo del suolo. Significativo il fatto che le rilevazioni ufficiali di tale fenomeno, da parte dell’Ispra siano cominciate proprio a partire dal 2007. Dal 2006 al 2023 sono andati persi, nel Lodigiano, 600 ettari di terreno.
Visto che ci sono aree non edificate tra un paese e l’altro, quale posto migliore per collocare servizi sgraditi ai più? E allora facciamo spazio alla proliferazione di centri commerciali e ipermercati, alle logistiche, oppure ad un nuovo gigantesco inceneritore per rifiuti o ad un esteso impianto di pannelli solari che occuperebbe un tratto di campagna pari a 80 campi di calcio (il cosiddetto agri-fotovoltaico), oppure diamo spazio ai data center sempre più grandi.
Insomma, dimentichiamo la storia, buttiamo via il nostro passato alla ricerca di un nuovo sviluppo improbabile e dannoso. Il nostro Lodigiano è diventato spazio libero in cui collocare impianti meno graditi ad altri. Quindi non si venga a dire che ci si oppone all’inceneritore solo per un atteggiamento nimby (Not in my backyard, la reazione sociale per cui si viene a dichiarare “non nel mio cortile”). Bisogna considerare tutta la storia del nostro territorio per ritrovare un equilibrio tra uomo, agricoltura e ambiente naturale. Se continueremo sulla via che altri ci vogliono imporre tra cent’anni stenteremo a riconoscere il nostro territorio, trasformato in zona periferica e di servizi della grande metropoli a cui già abbiamo concesso molto.
La nostra storia ci dà tante buone ragioni per dire no! Questo impianto non c’entra nulla con il nostro territorio.