Il Ponte di Sant'Angelo Lodigiano Foglio d'informazione locale

Busaroche, tèra barasina

Quàter pàsi in gir per Sant’Angel
I Barasa: il romanticismo dei vinti che si fa mito

di Emanuele Maestri


Folclore, storia o leggenda?
Come classificare gli avvenimenti che fra Cinquecento e Seicento videro contrapposte, in quel di Sant’Angelo, due famiglie, al punto tale che una di queste (la perdente) legò a imperitura memoria il proprio cognome agli abitanti del paese, conosciuti più come barasini che santangiolini, fatto degno di attenzione e studio, ricco di curiosità, le cui radici storiche sono profonde?
«Giovanni, Francesca, in riva al Lambro morto, i Bolognini e i Barasa si fronteggiarono quotidianamente e aspramente: i primi, celebri e nobili grazie al capostipite Matteo Michele Scannagatti, detto il Bolognino, vassallo di Francesco Sforza, furono i feudatari santangiolini dal 1452; i secondi, d’origine modesta, comparvero durante il periodo della dominazione spagnola del Ducato di Milano e furono dei capipopolo, fieri antagonisti del potere costituito, capeggiati da due fratelli “molto simili d’aspetto, probabilmente gemelli” definiti i “Gracchi di Sant’Angelo”, eletti, a furor di popolo, commissari della comunità».
«I Barasa sono avvolti nella leggenda. Appaiono e scompaiono senza lasciar traccia: non si ha certezza da dove arrivino, né dove siano emigrati dopo la definitiva sconfitta subita a causa dei Bolognini. L’ipotesi più verosimile sulle origini è quella spagnola: una famiglia di marrani (ebrei convertiti al cattolicesimo) stabilitasi in Italia, nel Ducato di Milano, nella contea di Sant’Angelo, a seguito della decisione presa dei re cattolici Ferdinando e Isabella, nel 1492, in nome dell’Inquisizione, di cacciare i giudei dopo aver loro confiscato ogni ricchezza».
«I Bolognini sono una famiglia potente, investita di un’autorità secolare senza limitazioni, confermata dai diversi governi succedutisi nel Ducato, ampliata ancor più dai viceré di Spagna a seguito del giuramento fatto alla Corona, il 24 giugno 1556, dai fratelli Sagramoro e Cesare Attendolo Bolognini nelle mani del Cardinale principe di Trento; sono gli esattori delle tasse degli spagnoli ed esercitano nel santangiolino un potere di polizia illimitato, attraverso una milizia privata. E proprio da questo contesto storico arrivano le prime notizie degli attriti, delle discordie tra le due famiglie, che ci rimandano al Manzoni dei Promessi Sposi (lo studierete alle superiori), attraverso l’immedesimazione dei conti con don Rodrigo, dei Barasa con il popolo vessato, dei rettori della parrocchiale con il curato don Abbondio. Un’epoca in cui i nobili godettero di svariati privilegi (in primis l’esenzione dal pagamento delle tasse); in cui ladri, assassini e bande armate (i bravi del feudatario) furono liberi di commettere crimini, vendette, stupri e omicidi senza pagar pegno».
«Una storia d’altri tempi, tempi lontani che si studiano sui libri, ma che hanno un che di attuale: in fondo – papà – la lotta tra ricchi e poveri è sempre la stessa, come i soprusi esercitati dai primi verso i secondi, con la complicità del potere».
«È così; è la storia che lo insegna! La rivalità tra i Bolognini e i Barasa, insomma, è totale: quest’ultimi erigono un palazzotto su un’altura a sinistra del Lambro morto come contraltare al castello, per avere una visione completa sul ponte e sulla piazza maggiore, per sorvegliare e anticipare le mosse dei signori. Di contro, i feudatari costruiscono, a ridosso del lato orientale della torre mastra, una galleria sporgente che, seguendo l’inizio dell’antico ricetto bastionato, ostacola la visione della piazza. Basta un inasprimento ingiustificato dei tributi, la notizia di una violenza subita da una famiglia del popolo o un incarceramento ingiustificato ed ecco che i Barasa sono alla testa dei santangiolini per dar vita a una sommossa (incendi dolosi ai cascinali dei Bolognini, bravi pugnalati), la quale viene repressa con determinazione dai signori, che al tempo voleva dire: torture, ceppi, segrete sotterranee, scomparsa di individui senza che nessuno ne sapesse nulla. Alcune cronache dell’epoca, arrivate ai giorni nostri grazie a ricerche effettuate nell’archivio parrocchiale, fanno ben comprendere il clima. Facciamocele raccontare da un Barasa, il quale si nasconde ancora in Borgo San Rocco: un’anima in pena che non sa ancora che i Bolognini non ci sono più».
«Chi è? Chi è?».
«Chiediamolo a lui...: chi sei?».
«Sono Giovan Pietro Barasa, figlio di Angelo Michele, sono qui che vago dall’inizio del Seicento…».
«Non devi aver paura: nel castello non vivono più i conti e le gesta dei bravi si leggono solo ne I promessi sposi. Raccontaci un po’ alcuni fatti che videro la tua famiglia contrapposta ai Bolognini».
«Lo faccio molto volentieri, in ricordo della mia famiglia, la quale combatté contro i soprusi e che gli abitanti di Sant’Angelo amano, al punto tale da identificarsi con il cognome».
«La prima storia risale al 7 settembre 1626: due Barasa sono ricercati dalla giustizia; per sfuggirle si recano, uno, in canonica, l’altro, nell’ospedale adiacente, per curare le ferite mortali ed evitare la vendetta del conte Paolo».
«Giovan Pietro, chi era il conte Paolo?».
«Avete l’ardire di chiedermelo? Non sapete che era un don Rodrigo santangiolino? Era figlio di Cesare Bolognini e della contessa Girolama Cavazza della Somaglia, “un uomo agitato da passioni indomite, menò vita sbagliata, e abusando di una privilegiata posizione che gli permetteva ogni impunità, si abbandonò ad atti indegni di persona onesta nonché di gentiluomo di così alto affare. L’andazzo dei tempi incoraggiante i più insensati diporti aveva fatto del conte Paolo Bolognini uno dei più tristi tipi del feudatario lombardo durante il dominio dei Re Cattolici…” (tratto dal libro Le famiglie nobili milanesi di Felice Calvi). Ma torniamo alla storia dei due Barasa: beh, il curato riporta nei suoi scritti che il conte chiede la licenza di poterli arrestare, ma non l’ottiene perché il vescovo di Lodi non si lascia piegare e con lettera scritta comunica al nostro don Abbondio che “li feriti stiano pur dove sono sin quando le ferite miglioreranno”».
«E uno a zero per i Barasa!».
«La seconda vicenda risale all’8 luglio del 1627, quando Tomaso Semenza, un bandito dello Stato di Milano, si rifugia in chiesa dopo aver rimediato ferite inferte da uno dei nostri (insomma, il contrario della prima storia); il rettore, don Pietro Dragoni, è invitato dal conte Ferdinando, protettore del bravo, a concedere al fuggiasco di fermarsi in chiesa per sei giorni; il curato scrive al vescovo, il quale acconsente, permettendo così al Semenza di riprendersi e, poi, di dileguarsi».
«E siamo uno pari: pareggio dei Bolognini!»
«La terza storia è simile alla seconda: siamo nel 1630, quando un altro Semenza (di nome Paolo), ferito gravemente dai barasini, viene portato in chiesa dai bravi dei Bolognini. Una volta guarito, riesce, di notte, a scappare».
«E siamo due a uno per i Bolognini».
La quarta vicenda mi riguarda, il protagonista sono io, al secolo Giovan Pietro Barasa. Siamo nel 1631, il 26 marzo. Non dico fandonie; è tutto scritto nei registri parrocchiali. Il rettore, don Orazio Gorla, scrive al vescovo di Lodi: “In Sant’Angelo ve ne sono sempre di nuove e quel che è peggio sono nuove sporche”. E che saranno mai queste “nuove sporche”? Il sacerdote, nel pomeriggio, in chiesa, sta facendo catechismo ai bambini, quand’ecco entrare un giovane al grido di “confessione, confessione!”, al quale pendeva una mano tagliata a seguito di un duello con il Baricello, capo dei bravi dei Bolognini, deceduto in combattimento».
«Insomma, quel giovane sei tu, ci pare di capire. Ecco perché hai tutte queste cicatrici. Ma alla fine don Orazio ti ha confessato, ti ha perdonato per l’uccisione del Baricello?».
«Siete bambini curiosi e fate bene ad esserlo; però non so rispondervi perché non lo ricordo; so solo che sono sopravvissuto, altrimenti come potrei essere qui?».
«Beh, con questo direi che tu hai fatto una doppietta: i barasini sono in vantaggio per tre a due».
«Eppoi?»
«Poi non so dirvi, perché da allora mi nascondo... Sentiamo vostro papà cos’ha da raccontare…».
«Quello che vi racconterò è documentato e ribalterà il risultato. Siamo nel febbraio del 1667: “uno” dei Bolognini, innamorato di una Barasa (Rosa), mentre si reca a un incontro con l’amata, viene sorpreso dai barasini, i quali lo uccidono e buttano il corpo nel Lambro. La reazione dei feudatari è immediata: Rosa viene rapita e rinchiusa nelle prigioni della torre mastra del castello. I contorni della vicenda sono avvolti nel mistero, ma si sa per certo che la giovane viene uccisa il 20 febbraio del 1667. Lo sappiamo perché il rettore della parrocchiale chiede al vescovo di Lodi come regolarsi per i funerali e per la successiva sepoltura. Il vescovo dà le seguenti indicazioni: “siccome tu mi dici che la condannata era pia e di buona condotta, ti ordino di fare i funerali religiosi”. Il sacerdote è un don Abbondio all’ennesima potenza; pertanto, temendo rappresaglie da parte dei conti, passa l’incarico al priore degli agostiniani, il quale effettivamente celebra i funerali. Il 20 febbraio 1667 è la data ufficiale della sconfitta dei Barasa a opera degli Attendolo Bolognini, perché la morte di Rosa getta la famiglia nello sconforto più totale. Da qui se ne perdono le tracce (con tutta probabilità emigrano a Lodi dove ancora sino all’Ottocento risultano registrate all’anagrafe persone con cognome Barasa)».
Ma è l’inizio del mito che avvolge la storia della famiglia Barasa, vinta dai fatti ma vincente nella tradizione, perché essa rivive in ogni santangiolino moderno, il quale inizia a formarsi proprio nel Seicento come uomo libero, quasi anarchico, impiegato in attività economiche in cui il concetto di libertà è alla base di tutto, dedito al commercio verso le Repubbliche di Genova e Venezia, guidato dal credo “mèi sensa un franche che laurà sùta padròn”.

P.S.: chi volesse segnalare professioni ormai scomparse, curiosità, spunti d’approfondimento scriva a maestri.emanuele@gmail.com .

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AMICI BIANCHERIA Dott.ssa Alessia Altrocchi Galluzzi Galluzzi