Cose d’altri tempi


Un nostro affezionato lettore ci ha inviato un suo ricordo dicendo che era un promemoria che aveva preparato per i suoi figli.
I ricordi sono spicchi di vita che ciascuno porta dentro di sè, ma contrariamente a quello che si pensa, vale la pena di comunicarli agli altri perchè i nostri ricordi non sono necessariamente rimpianti del passato, sono soprattutto testimonianze di avvenimenti e di circostranse che ormai non possono pià ripetersi: per questo conviene parlarne.
Sono nato a Milano, ma i miei genitori e i miei fratelli erano santangiolini ed in casa mia si viveva nel ricordo nostalgico di Sant’Angelo e si parlava il dialetto nativo.
Della mia fanciullezza mi sono rimasti tanti bei ricordi che ora diventato “vecchio”, rivivo con gioia, perchè ho capito che è stato il periodo più bello della mia vita.
Infatti quando ero scolaretto, i miei genitori, appena finiva la scuola, mi spedivano a San’Angelo per passare l’estate dai miei zii contadini ed io vivevo felice, andando “a piedi nudi a giocare nei prati”. Era il mio papà che mi accompagnava con la corriera e, immancabilmente, quando si arrivava all’altezza di Vidardo lui si alzava in piedi, mi metteva una mano sulla spalla e, con le lacrime agli occhi, puntando il dito in avanti, mi diceva: “tel là el campanèn”. Talora ci capitava come automezzo il famoso “düpiàn”, una corriera vecchia ma caratteristica perché aveva due piani sovrapposti per i passeggeri. A me bambino, “el düpiàn” piaceva moltissimo, perché dall’alto potevo vedere un bel panorama. In particolare ricordo cosa è successo un giorno: arrivati a Sant’Angelo, completata facilmente la discesa di San Rocco, la corriera ha affrontato la salita dopo il ponte del Lambro, verso la piazza; come dicevo “el düpiàn” era vecchio e quindi arrancava con fragore assordante sulla salita, viaggiando così lentamente che i passanti lo superavano a piedi, anzi uno di questi si è avvicinato all’autista e, con arguzia tipicamente santangiolina, gli ha detto;”Girumèn, te vöri un sbùtòn?” (Gerolamo, vuoi uno spintone?).
Ricordo i campi sterminati di frumento, il loro colore dorato sotto il sole e l’inimmaginabile silenzio naturale che aleggiava nell’aria, rotto soltanto dal canto degli uccelli che svolazzavano sui filari degli alberi e dal frinire inesauribile delle cicale, nascoste sotto le spighe. E io cantavo a squarciagola le canzonette di allora, magari senza capirne esattamente le parole, ma inebriato dalla melodia e intanto, per quanto mi era possibile, aiutavo i miei cugini nel rivoltare il fieno, nella mietitura del frumento, nella raccolta del granoturco e nel trasporto dei meloni e delle angurie.
La sera, tornati in cascina, avevo il compito di abbeverare il cavallo dopo aver attinto l’acqua dal pozzo con una cigolante carrucola insieme a un mio cugino più grande, oppure provvedevo ad alimentare un maialino che, al finire delle mie vacanze, diventava un maialone.
Ricordo le notti illuminate soltanto dalla luna: non c’erano i lampioni attuali e il buio fitto era padrone della notte. Soltanto la luna, con la sua bianca luce permetteva di vedere l’ambiente, ma la luce della luna, che è riflessa, si distingueva da quella del sole perchè c’era un confine netto fra ombre e zone illuminate: contrariamente a quanto avviene con la luce del sole, chi era all’ombra della luce lunare diventava invisibile, e questo era un motivo di allegri nascondimenti.
E non posso dimenticare nella mia mente di bambino che la bianca luna era accompagnata da centinaia, migliaia di puntini splendenti: erano le stelle (allora visibili) che la circondavano nel firmamento a ricordarci che la Terra non è sola nell’Universo.
P. M.