I filsòn, l’arte povera che supera il tempo e profuma di popolo


Un’attività ormai in via di estinzione, che nel Lodigiano trova le sue radici a Sant’Angelo

di Lorenzo Rinaldi


Le mani, il naso, gli occhi. Per raccontare la storia dei filsòn partiamo dal corpo. Ci sono le mani delle donne che, con un lavoro ripetitivo e faticoso, infilzano una a una le castagne bagnate, per ricavarne lunghe collane: utilizzano grandi aghi e spago spesso e alla fine, dopo intere giornate passate a filsà, si ritrovano con i calli alle mani e le dita annerite dal liquido che esce dai marroni zuppi d’acqua.
Ci sono i profumi, pungenti e genuini, che sanno di fumo, di dolciastro, di castagne cotte al forno, e che si respirano in autunno nelle case di corte della Costa e di Santa Maria, quartieri storici di Sant’Angelo Lodigiano, popolari fin nel midollo, dove la produzione dei filsòn fino agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso era radicata e impegnava centinaia di donne nella loro preparazione e poi decine di ambulanti che giravano le fiere, grandi e piccole, del nord Italia.

Parliamo di un’economia povera, che permetteva un tempo alle donne - madri e figlie - di integrare il magro bilancio familiare.
Ci sono gli occhi, vivaci e furbi, dei commercianti di filsòn, abili negli affari e dalla risposta pronta. Se la manovalanza lavorava per paghe modeste, i venditori hanno fatto fortuna: lingua lunga, parlata schietta, senso degli affari tutto santangiolino, capacità di adattamento a tutte le situazioni.
Per raccontare la storia dei filsòn, tradizione antica che va scomparendo, è bene affidarsi ai racconti di chi ha fatto di un semplice lavoro un’arte. E allora facciamo parlare Alessandro Bagnaschi, classe 1924, originario della Costa di Sant’Angelo e Filippo Toscani, santangiolino anch’esso ma della frazione Ranera, classe 1951. Entrambi ci hanno lasciato dopo una vita passata di fiera in fiera: una vita fatta di levatacce, chilometri macinati sui furgoni, freddo intenso e nebbia fitta.
Con l’inizio del mese di novembre - raccontava Bagnaschi - a Sant’Angelo si cominciavano a preparare i filsòn. La materia prima, la castagna, arrivava dalla zona di Cuneo e Mondovì (dove le castagne sono più grandi) e dalle province di Benevento e Avellino. La lavorazione era lunga e laboriosa, iniziava con l’autunno e si prolungava fino a Pasqua, talvolta anche oltre.
Le castagne giungevano a Sant’Angelo in grandi sacchi di juta e venivano selezionate a mano: quelle ammaccate venivano usate per fare la busèca (castagne cotte in acqua), quelle deteriorate venivano scartate, tutte le altre erano buone per i filsòn.
Dopo essere state selezionate, le castagne finivano in grandi mastelli, un tempo in legno, oggi in plastica, e restavano a mollo in acqua fredda per quattro-cinque ore: in questo modo la buccia, dura, si ammorbidiva e dunque era più facile bucarla con gli aghi. Attenzione però, l’importante era non usare acqua calda, che avrebbe alterato il colore della castagna.
Una volta tolte dai mastelli, le donne iniziavano a comporre le fila di castagne, infilandole una ad una: si usavano quattro aghi e si infilavano quattro castagne alla volta, una per ogni ago, legandole poi fra loro.
Alla fine si deponeva il filsòn completo in ceste di vimini, popolarmente conosciute come scorbe o scurbèn.
Quanto è lungo un filsòn? Un tempo si andava da 30 a 60 castagne, oggi si cerca di inseguire gusti ed esigenze del mercato, le grandi famiglie riunite attorno a un tavolo o davanti al camino scoppiettante sono solo un ricordo e dunque si opta per prodotti più corti. Ultimo passaggio: la cottura, circa 40 minuti, nei forni dei panettieri.
Per raccontare la storia dei filsòn bisogna vivere da vicino l’esperienza, immergersi in un mondo che non c’è più: bisogna entrare nei freddi magazzini e nelle disadorne case di corte, dove il profumo pungente delle castagne bagnate, infilzate e poi cotte al forno si sprigiona nell’aria. I filsòn non si vendono ai mercati, si vendono alle fiere, alle feste dei patroni - e qui a parlare è Filippo Toscani. E ritornano alla mente i ricordi di piazze stracolme di gente, chiese profumate d’incenso, famiglie ammassate attorno ai banchi.



Più che un lavoro, i venditori di filsòn mettono in scena l’arte del commercio, che affonda le radici nella storia della nostra gente e dei nostri campanili. E che si mischia alla devozione della nostra terra.
La stagione inizia a metà novembre con la fiera agricola di Codogno, e poi prosegue il 25 novembre a Gorgonzola con la fiera di Santa Caterina. Da lì in poi non ci si ferma praticamente mai fino a maggio. Toscani conosce luoghi e date a memoria: dal 5 al 12 dicembre c’è Sant’Ambrogio a Milano, a Lodi Santa Lucia va dal 7 al 12, poi abbiamo i “mercanti della neve” San Mauro, Sant’Antonio abate e San Bassiano il 15, 17 e 19 gennaio, con la tappa di Lodi in piazza Vittoria.
Gli ultimi dieci giorni di gennaio si va a Novara per San Gaudenzio, ed è uno spettacolo vedere la fiumana di persone che accorre fuori dalla basilica.
Il 31 gennaio tappa a Castellanza per San Giulio, il 3 febbraio si va a Magenta per San Biagio, il 5 febbraio a Marcignago nel Pavese per Sant’Agata. E poi c’è Santa Apollonia a Cantù il 9 febbraio e a Rivolta d’Adda la domenica. Quaranta giorni dopo la Pasqua c’è l’Ascensione a Locate Triulzi e il 22 maggio c’è Santa Rita alla Barona.
Nel mezzo i mercatini di Natale, tante altre piccole e grandi fiere, tra le quali la fiera dell’Angelo a Borgonovo Val Tidone a Pasquetta, e la presenza fuori dai cimiteri nei giorni del ricordo dei defunti, in una terra, quella lombarda, che ha conosciuto il sacrificio dei tanti filsunè e delle donne che, in piccoli crocchi, infilavano pazientemente decine di collane di castagne.
E quando si chiudeva l’ultima fiera - ricorda Toscani - mio papà caricava tutte le donne sul camion e per ringraziarle del lavoro le portava al santuario di Caravaggio, poi al ritorno ci si fermava a mangiare pane e salame, ed era festa grande!
(Relazione alla Accademia Italiana della Cucina,
venerdì 20 gennaio 2023, Cà de Mazzi, Livraga).



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