Orgoglio santangiolino – La Basilica
La Basilica: la nostra césa granda cun el campanen cun
su l’angel che’l guarda vèrse Pavia e el gira le spale a Lode


di Emanuele Maestri


Il mio precedente contributo per “Il Ponte”, facendo propria la bellissima frase scritta da Ada Negri («mi vengono incontro, nel diffuso oro dell’aria, la mole potente della Rocca di Regina Visconti della Scala – mattone lombardo del più bel rosso acceso – e il campanile della cattedrale alto sui tetti del Borgo»), metteva in luce la bellezza del Castello Bolognini, simbolo della nostra cittadina, evidenziandone la quasi estraneità nella vita dei santangiolini.
Non è così per la nostra «cesa granda», vero centro pulsante della comunità, luogo in cui tutti i santangiolini, almeno una volta, ci hanno messo piede: per trovare un po’ d’intimità in una preghiera personale o comunitaria, per una liturgia solenne, per un battesimo, un matrimonio, finanche per l’ultimo saluto a un defunto. La nostra Basilica è viva e vive nei santangiolini: è il luogo della preghiera della comunità in cui l’intimità diventa un tutt’uno con l’interiorità, si raccoglie e si dirige verso l’alto, in un ponte celeste, un ponte verso il cielo che collega l’umano al divino; è il luogo dell’abbandono fiducioso nella Provvidenza di Dio in cui si comprende la limitatezza dell’uomo; è il luogo che ci conforta nei momenti «no» quando pensiamo che Dio ci ha abbandonato, che Dio è morto: in questi momenti, entrando in chiesa, comprendiamo, grazie al silenzio e alla maestosità dell’arte, che Dio c’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà, perché l’uomo è strutturalmente aperto al mistero, non si concepisce solo, chiuso in sé e sin dalla preistoria ha la necessità di credere, di trovare conforto nell’Alto, magari solo inteso alla maniera di Spinoza, come «l’ordine necessario del tutto».
La nostra Basilica, con il magnifico campanile, è il promemoria del santangiolino moderno, architrave della nostra civiltà: è il segno del sentimento religioso di un popolo, segno di appartenenza e di monito verso l’eterno, segno elementare della fede in Dio e dell’ordine naturale che nasce dalla tradizione millenaria del cristianesimo. La nostra Basilica è semplicemente il simbolo di Sant’Angelo, della fede dei santangiolini che hanno realizzato questo meraviglioso tempio a mo’ di appartenenza e memento per le generazioni future dell’antica fede dei santangiolini, madri e padri che in «saecula saeculorum» hanno posto conforto in Dio, in quel Dio che abita quel luogo, in cui una moltitudine di volte ha risuonato la preghiera e l’invocazione nei vari momenti di dolore e di speranza, che ha lenito non pochi lutti, ha dato conforto in momenti di paura e di depressione generale, soccorso alla miseria umana.
I simboli sono importanti. Hanno un significato che non va perso nemmeno quando muta il sentire religioso e la sua manifestazione esteriore. Sono essenziali per l’uomo, per il suo comportamento, per il suo essere. L’uomo ha bisogno di simboli a cui ancorarsi.
La nostra Basilica, segno di storia, di memoria, è il luogo in cui «nel 1661, nel locale attiguo alla sagrestia della chiesa parrocchiale scoppiò un furioso incendio che minacciava di propagarsi a tutto il paese; in tale occasione il parroco e con lui tutta la comunità, si rivolsero all’intercessione di Sant’Antonio Abate perché l’incendio in atto potesse essere circoscritto e domato. Il Santo non fece mancare il suo efficace patrocinio e in segno di riconoscenza venne fatto il voto di festeggiarlo oltre che il 17 gennaio, anche nella prima domenica di luglio: prese così inizio la tradizione del “Festone” che ogni anno viene celebrato a Sant’Angelo per onorare il Santo Patrono ed invocare la sua intercessione per la benedizione della nostra città (La Cordata della Domenica 5 luglio 2021)»; è il luogo in cui l’arcigno e intransigente mons. Bassano Dedè rifiutò di ricevere Garibaldi e di farlo entrare, come tramandato dai ricordi dei vecchi santangiolini e annotato da don Pietro Novati su testimonianza di don Gerolamo Toscani: «Era di giovedì, il 10 aprile 1862 quando Garibaldi, arrivando da Pavia per la strada di Belgioioso arrivò a Sant’Angelo con un codazzo di carrozze di santangiolini che andò ad incontrarlo sino a Villanterio. Sindaco Raimondo Pandini. Il Corriere dell’Adda del 12 aprile 1862 ci racconta che ad omaggiarlo c’erano anche tre sacerdoti (don Bartolomeo Cagnoni, don Pietro Orsi e don Probo Rozza) subito scomunicati dal vescovo di Lodi mons. Benaglio, ma non mons. Dedé che, per protesta verso l’uomo Garibaldi, chiuse la prepositurale (Il Cittadino – 27/01/2007 – Giuseppe Garibaldi a Sant’Angelo e Lodi – don Pietro Novati)».
La nostra bellissima Basilica è recensita anche in internet; navigandovi (www.tripadvisor.it) mi sono imbattuto in alcuni commenti, davvero lusinghieri, di persone (non di Sant’Angelo) che l’hanno visitata. Un certo Feugi di Milano, nel commento titolato «Incredibile sorpresa» scrive: «in un bel week end di primavera siamo in giro in moto fuori Milano e da lontano intravedo il profilo di una chiesa e di un castello.... l’esterno non rende merito alla meraviglia che si apre ai nostri occhi.... chiesa maestosa con mosaici dorati di rara bellezza, abbiamo la fortuna di incontrarne il sagrestano che ce ne racconta la storia e l’impegno profuso dalla comunità locale nel costruirla meno di 100 anni orsono e nella costante manutenzione. Merita il viaggio per andare a vederla!
Gius-Anna 123 di Moncalieri scrivono: «Abbiamo la fortuna di trovare parcheggio a pochi passi dalla basilica che alla domenica mattina si sta preparando ed illuminando per la Messa principale ; appena entrati si viene colti da stupore ed ammirazione; una chiesa così bella, imponente e con architettura variegata è difficile da trovare anche nelle grandi città ; per descrivere tutto ciò che c’è di bello serve molto spazio, ed è più facile per i turisti che passano in zona, deviare senza indugio e restare a lungo in ammirazione».
Mamele71 di Ostuni commenta: «Ci sono capitato per caso. Devo dire che è veramente una bomboniera».
La nostra «cesa granda» colpisce: ha colpito Ada Negri, ha affascinato Feugi di Milano, Gius e Anna 123 di Moncalieri, Mamele 71 di Ostuni e chissà quanti altri che, vedendola apparire all’orizzonte, in cuor loro, avranno pensato e detto: «che meraviglia!». Proprio come esclamò Mario Cervi, direttore de Il Giornale, quando venne a Sant’Angelo per una conferenza al Pandini.
C’è un bellissimo libro, edito nel 2008 dalla Parrocchia dei Santi Antonio abate e Francesca Saverio Cabrini, a cura di Beppe Roberti e Antonio Saletta con fotografie di Emilio Battaini - al quale rimando- che approfondisce la storia della Basilica ed elenca e descrive i tesori artistici ivi custoditi: il dipinto raffigurante la Presentazione di Maria al Tempio di Simone Peterzano, maestro di Caravaggio, della fine del XVI secolo; le tele raffiguranti Sant’Antonio abate con San Paolo di Tebe, il santo eremita con gli animali e la sua gloria, del pittore milanese Donato Mazzolino del Seicento; i Misteri del Rosario del XVII secolo nella Cappella della Madonna; l’antica tavola lignea raffigurante l’arcangelo Raffaele con San Cristoforo e Tobiolo attribuita a Giovan Battista Della Cerva (1475-1580) socio della bottega di Gaudenzio Ferrari; l’affresco staccato della Madonna della Mercede di un ignoto artista lombardo richiamante l’impostazione e la tecnica della scuola di Bernardino Luni dei primi decenni del Cinquecento; il fonte battesimale del XVII secolo in cui il 15 luglio 1850 venne battezzata Santa Francesca Cabrini; il dipinto su tela, conservato in sacrestia, raffigurante la Sacra Famiglia, ascrivibile a un artista lombardo-emiliano del XVII secolo, della scuola di Carlo Francesco Nuvolone; infine, tutto ciò che è esposto nel museo della basilica.
«Insuma, la nòsta cesa granda l’è bela e la g’à un po’ de robe de valur» che testimoniano la fede, nei secoli, dei santangiolini che il formarsi di una mentalità individualistica non deve far dimenticare, perché una fede che perde la dimensione sociale e intellettuale a scapito di un credo che si sviluppa nel segreto del cuore e nell’isolamento della coscienza (la dimostrazione plastica di questo ragionamento è ben visibile nel calo della partecipazione alle funzioni religiose in Sant’Angelo e un po’ in tutta Italia) scalfisce il tessuto culturale di una comunità. Valga per questo il monito del vescovo di Lodi (ora emerito) mons. Giuseppe Merisi, il quale, nella sua introduzione al libro di Roberti e Saletta scrisse: La basilica dei santi Antonio abate e Francesca Cabrini, collocata nel cuore di Sant’Angelo, è segno di una fede che non si estranea dalla storia, ma che incide nella storia della città: diventa seme fruttuoso nella vita delle persone, delle famiglie, delle comunità. La chiesa nella città ci ricorda che Dio non è lontano da noi, al contrario è vicino a noi, partecipe della nostra vita di tutti i giorni, con le sue gioie e i suoi dolori. Monito attualissimo affinché il desiderio non prevalga sull’essere, la volontà sulla realtà; perché il caso non sia solo un caso; perché non è un caso se siamo santangiolini. Non è il caso che ci fa nascere maschi o femmine, da questi o quei genitori, in quella famiglia, in quel luogo, in quel tempo, in quel popolo. Esiste un rapporto con i luoghi di nascita, di vita. Nascere in un posto può apparire casuale, insignificante, ma non è così, anche se oggi questa filosofia sembra vada per la maggiore, in cui a contare è la semplice volontà individuale: «dove andrò a vivere lo decido io, se essere santangiolino o meno lo decido io». Il discorso non è banale, ma figlio della nostra epoca, dove tutto muta, niente è certo, in cui la nascita diventa una casualità, come lo stesso l’appartenere o meno ad una certa comunità.
Taluni sentimenti vanno oltre la volontà, sono scritti nel nostro dna biologico ma anche e soprattutto in quello culturale: ci appartengono per tutta la vita.
I valori legati al luogo di nascita sono un bene da salvaguardare, un punto d’origine da cui partire e a cui tornare continuamente, pur nel corso dei cambiamenti che la vita ci pone innanzi. Dove si è nati non è un carcere; il sognare di evadere non è la normalità, perché sono in gioco la difesa della realtà, del nostro passato, del nostro essere e come scriveva Pasolini: «difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia e godi di questa idea».



IL PONTE - foglio d'informazione locale di Sant'Angelo Lodigiano