Toni e Bèta

Un racconto semplice con il gusto delle cose perdute


Da tempo, agli ospiti della Casa di Riposo e del Centro Diurno, sono proposti lavori finalizzati al recupero della memoria, all’espressione dell’emotività e della fantasia. Il testo, di cui pubblichiamo ampi stralci, è stato realizzato nell’anno 2006, e fa parte di questi progetti. Partendo dall’ascolto di brani musicali popolari che hanno suscitato emozioni e ricordi, la mente e il cuore sono andati a ruota libera, e gli anziani hanno iniziato a raccontare episodi di vita vissuta, abitudini legate al lavoro, al matrimonio e ai figli.
Questi racconti sono stati pazientemente “organizzati” dal maestro Enrico Cerri, con la collaborazione di Daniela Tedeschi e del maestro Carlo Rognoni.


Una volta a Sant’Angelo vivevano due giovani: Toni e Bèta.
Toni era figlio di Gina, la limunèra, una donna piccola ma piena di energia. Prima di sposarsi andava ogni giorno, esclusa la domenica, a Milano ad acquistare i limoni che poi rivendeva. Ci andava in bicicletta e poi, al ritorno, si faceva spesso trainare dal camion a cui si legava con una corda.
Le era rimasto i soprannome di limunéra anche quando aveva smesso di lavorare, per sposarsi. Già, perché dalle scumagne non ci si libera più.
Il papà di Toni, Gigén, faceva il pescatore, abitavano alla Costa, non molto lontano dal Lambro, dove andava a pescare con il fratello Tugnètu, che poi si recava in paese a vendere quello che aveva pescato.
La sorella Tugnèta, andava a maghernà, rivendendo poi le rane catturate.
In casa c’era anche la nonna che la sera, dopo cena, raccontava di quando andava nel Pavese a fare la monda del riso. Che tempi duri! Si partiva la mattina presto su un carro trainato da un trattore e, per precauzione, si doveva prendere il chinino contro la malaria.
Quelle che andavano lontano rimanevano via da casa per quaranta giorni. Dormi-vano in un camerone su sacchi di paglia e mangiavano sempre riso e fagioli.
Spesso la nonna raccontava di quando lei e la sorella Rusìna lasciarono il lavoro prima della fine del periodo della monda. Era una storia molto triste. Per pulire il riso dal giavòn, che lo faceva morire, si doveva stare con la testa abbassata per ore ed ore. Un giorno la nonna, che era incinta di tre mesi, dopo un’ora di lavoro ha sentito il bisogno di raddrizzare la schiena perché non ce la faceva più. Il padrone aveva urlato come al solito e le aveva picchiato la testa col giavòn . La Rusìna, che era vicino a lei, si era arrabbiata moltissimo e aveva gettato con forza l’erba che aveva in mano in faccia al padrone. “Sbàsete tì”, gli aveva gridato. Poi aveva preso per mano la sorella e se n’erano tornate a casa.
Toni non aveva voluto fare il pescatore come suo padre; conosceva alcuni giovani della sua età che facevano i tilè e avevano sempre tanti soldi in tasca. A 25 anni, dopo aver fatto diversi lavori, si era deciso ad andare in bicicletta con il suo amico Giuanén, a vendere la tela.
Giuanén gli insegnava i trucchi poco corretti del mestiere, ma a Toni non piacevano questi sotterfugi. In casa l’avevano abituato a non imbrogliare, ma ad essere sempre sincero ed onesto; per questo aveva lasciato l’amico, cercando di farsi una clientela girando nei cortili e nelle cascine e vendendo sempre stoffa bella. Prima andava in bicicletta, poi si era comprato una moto, non tanto bella, ma comoda, per girare con i pacchi della biancheria e allargare la sua clientela.
Bèta era figlia della Giuanìna e di Pèpu el curdè. Mamma Giuanìna aveva tre sorelle e due fratelli... ma non erano proprio suoi fratelli.
Occorre sapere che suo papà aveva un fratello: Beppe. Tutti e due erano andati in guerra, quella del ‘15-’18. Il fratello, che era sposato e aveva quattro figli, era morto in combattimento. Al papà, mentre era al fronte, era morta la moglie di spagnola, e aveva lasciato un figlio.
Finita la guerra, il papà si era trovato con un figlio e senza moglie. Sua cognata, rimasta vedova, non sapeva come allevare i suoi quattro bambini. Allora i due cognati si erano sposati e dalla loro unione era nata la Giuanìna.
Il papà era un gran lavoratore, ma la domenica andava all’Usterìa del Pelegrén e lì si ubriacava. Allora la Giuanìna andava a prenderlo e lo portava a casa dove avevano chiuso tutte le finestre per fargli credere che era notte, e lo metteva a letto.
Pèpu faceva il lavoro di suo padre e prima ancora di suo nonno: il cordaio.
A Sant’Angelo ce n’erano parecchi, soprattutto in Borgo San Martino e al Lazzaretto. Alcuni erano alle dipendenze di signori di Milano che spedivano in paese canapa e filo già pronti, e poi venivano a ritirare le corde, grandi e robuste, che erano usate per le navi.
Pèpu, però, lavorava in proprio. Aveva un solo santé dove c’erano i rastrelli sui quali correvano i fili. In fondo al santé c’era la ruota che intrecciava i fili ed era fatta girare a mano.
Quanto camminare avanti e indietro faceva Beppe sul santé! Comperava la canapa a Milano, ma acquistava an-che da contadini e fittabili i cò, cioè le corde con le quali si legavano i covoni e che non venivano buttati al mo-mento della “battitura”. Faceva corde usate in campagna e quelle per legare i salami, faceva anche la limetta che serviva per legare le molle dei letti, e delle sedie.
La mamma era casalinga e aveva sempre tanto da fare. Il lunedì si alzava prestissimo perché era il giorno della bügada settimanale, accendendo il fuoco sotto il grande pentolone per far bollire l’acqua che poi versava nel segiòn. Come detersivo usava la cenere che metteva nell’acqua bollente su di un telone. Le lenzuola venivano lavate tre volte all’anno e allora la bügada durava otto giorni.
Bèta era andata poco a scuola, solo fino alla terza elementare, perchè era la prima figlia e doveva aiutare la mamma ad allevare i fratelli più piccoli. La materia che le piaceva di più era quella chiamata “faccende domestiche”, perché nelle altre si doveva studiare molto.
Quando i fratelli avevano cominciato ad andare a scuola, si recava da un’amica di sua mamma ad infilare castagne per fare i filsòn. Lì trovava una ragazza con cui poteva parlare un po’ delle cose che le piacevano.

Il fidanzamento

Come facevano tutti, la domenica mattina si andava in chiesa alla Messa grande. Gli uomini stavano a destra e le donne a sinistra; in mezzo, per dividerli, un telone.
Finita la Messa ci si fermava sul sagrato a chiacchierare. Bèta era accompagnata dalla zia Pina che aveva il compito di controllare che Bèta non stesse troppo vicina ai giovanotti.
Però, mentre zia Pina si fermava a chiacchierare con le sue amiche, Bèta e le altre ragazze adocchiavano, furtivamente, il gruppo dei giovanotti. Ed era stato così che, proprio una domenica mattina, Bèta si era accorta che Toni la gurdava con insistenza, ma, appena lei si voltava, lui fingeva di guardare da un’altra parte. Così era successo per alcune domeniche, poi, quasi per incanto, i loro sguardi si erano incontrati e ci era scappato il primo sorriso.
Un’altra volta si erano visti nel cortile di un’osteria al Pusòn, dove la domenica si ballava al suono di un organetto. Fu in una di queste occasioni che Toni e Bèta avevano iniziato a conoscersi meglio.

Il matrimonio

Dopo qualche tempo, finalmente era giunto il giorno del matrimonio. Quanto lavoro era stato fatto per preparare la dote. Le lenzuola e tutta la biancheria dovevano essere ricamate.
A Bèta la nonna aveva lasciato due lenzuola tutte ricamate a mano: una meraviglia! Erano due gioielli che la ragazza, a sua volta, avrebbe lasciato a sua figlia, e così di generazione in generazione.
In chiesa Toni e Bèta erano andati a piedi, perché prendere a noleggio una automobile costava troppo.
Il pranzo di nozze era stato fatto in casa di Bèta che aveva una cucina più grande di quella di Toni.
In viaggio di nozze erano andati a Milano, dove abitava la zia Lüisina, la sorellastra di mamma Giuanìna. Da ragazza era andata a servizio da un medico, che, dopo alcuni anni, era rimasto vedovo. Così la Lüisina si era trovata ad allevare i suoi due figli come se fossero i propri e, alla fine, il dottore si era talmente affezionato a quella “ragazza di campagna”, come scherzando la chiamava lui, e aveva finito per sposarla.
Toni e Bèta erano andati ad abitare in Borgo San Rocco, alla Baia del Re, alla Masàia.
Non erano andati volentieri ad abitare lì, perché c’era ancora una certa rivalità fra i sanrocchini e quelli di altre zone del paese.
Gli sposini erano rimasti male quando dei vecchi amici, per scherzo, erano andati sotto le loro finestre a cantare: “Per fà la fèsta indèvun a rubà la pòla a la finèstra. I ghèn cursi adré fìna al Pusòn, lasa zu la pòla o gusatòn!”.
Ma erano una coppia tanto affiatata, molto aperta e cordiale con tutti i vicini, dai quali seppero farsi voler bene. Così vissero felici e contenti.
Giuseppina Abbiati, Cristina Bellani, Paola Bianchini, Giuseppina Carenzi, Maria Cremonesi, Dina Curti, Lina Dovera, Anselmo Gaggini, Camilla Garofoli, Ines Gobetti, Piera Leccardi, Carolina Molinari, Ugo Passoni, Giuseppe Pernigoni, Emilia Polli, Maria Ponzoni, Francesca Ravarelli, Livia Rognoni, Lucia Rozza, Maria Testa, Ester Tonali, Angela Trabucchi, Oreste Zanichelli, Pasqua Zilioli, Ernestina Zini