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IL PONTE
santuario mariano di caravaggio
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ANNO 5- N.3 (Versione web - anno 2 n.3) NUOVA SERIE GIUGNO 2001

Racconti barasini

Una gita a Caravaggio con rivincita a….Teatro

Nello scorso dicembre 2000, il Comune di Cornegliano laudese ha pubblicato un interessante volumetto di 64 pagine dal titolo Semi di memoria, contenente due lavori di Raffaele Carelli (classe 1934). La prima parte è una sele zione di brani contenuti in un più ampio lavoro intitolato Cammin facendo, una sorta di autobiografia con riferimenti a fatti realmente avvenuti alla Muzza di Cornegliano laudese negli anni della seconda guerra mondiale. Nel secondo testo, dal titolo Quando non c’era la TV, Sono descritti episodi tristi e lieti di vita quotidiana vissuti dall’autore nel dopoguerra. In una nostra sintesi, riproduciamo i paragrafi 9 e 10 in cui sono citati personaggi della nostra Sant’Angelo, protagonisti di un simpatico e gustoso episodio che racconta una sfida durante la gita a Caravaggio a bordo di carri agricoli, finita in modo divertente sul palcoscenico del teatro "S.Marta" di Sant’Angelo.

A.S.

Nel secondo dopoguerra divenne costume organizzare le gite parrocchiali; tra queste una, indimenticabile, fu quella al Santuario Mariano di Caravaggio. Il mezzo di trasporto era un carro agricolo con ruote di gomma, provenienti da un residuo bellico. La locomozione era effettuata da un trattore agricolo modificato per funzionare a gasolina, un gas ricavato da un particolare procedimento di gasificazione del legno; il carburante era, quindi, legna da ardere (…). Dopo il ponte dell’Adda superammo un gruppo di "pellegrini" di Sant’Angelo Lodigiano, che facevano il viaggio su un carretto trainato da un cavallo. Uno dei nostri disse: "Noi abbiamo sessanta cavalli nel motore del trattore, con quel ronzino arriverete domani mattina". Non ti dico le risposte dei santangiolini, che in fatto di frizzi e lazzi non sono secondi a nessuno. Ad Agnadello forammo e perdemmo del tempo per sostituire il pneumatico; i "barasini" ci raggiunsero e ci lanciarono un coro di improperi. Sostituita la ruota, li raggiungemmo nuovamente superandoli e restituendo con gli interessi le invettive ricevute. Noi eravamo giovani ed i nostri antagonisti di quest’incredibile gara erano tutti vecchi. Loro ci dicevano:" Chi lè va piàn, el va sàn, el va luntàn! ve rüvème amò ala prima sbüsada; nome sbüseme no". Infatti, la loro "baretta" aveva le ruote di legno cerchiate con ferro. Fu un’incredibile gara fra un cavallo vero ed i cavalli a vapore del trattore; giungemmo, infine, alla meta.

Ultimata la visita al santuario e consumato il pranzo al sacco si presentò il grosso problema di rimettere in moto il trattore per il viaggio di ritorno. Accesa la legna e preparato il gas, l’energia sviluppata non fu sufficiente per mettere in moto il trattore e questo non era previsto. Non si sapeva chi avrebbe potuto offrirci un’alimentazione elettrica ausiliaria di dieci kilowatt; tutto era affidato alla divina provvidenza (…). Allora spingemmo il carro con il trattore fino al comando del "Presidio Americano", che si trovava nella vicina città, in mezzo all’ilarità dei "pellegrini" che incontravamo lungo il percorso. Il comandante delle forze alleate si dimostrò sollecito e premuroso e fece portare subito due fustini di benzina (…). La sorgente ausiliaria d’energia elettrica fu collegata al motore d’avviamento del trattore, che si mise in moto senza alcuna difficoltà in mezzo agli applausi di tutti. Non riuscimmo a raggiungere il carretto dei santangiolini. Il rientro in paese. Il rientro in paese avvenne a notte fonda. Dopo pochi giorni sul giornaletto della parrocchia di sant’Angelo comparve uno strano articolo che attirò la curiosità dei lettori: "Cavallo vero batte sessanta cavalli vapore 1-0". L’articolo molto divertente per loro, fu altrettanto bruciante per noi. Occorreva una rivincita.

L’occasione ci fu offerta da una recita della nostra filodrammatica a Sant’Angelo Lodigiano. Una domenica pomeriggio (…) Don Luigi Bottani, il coadiutore, si avvicinò per parlarmi. Don Luigi disse: "Raffaele, questa sera, prima che inizi la recita a Sant’Angelo dovresti recitare questa filastrocca". Diedi un’occhiata allo scritto e risposi che non mi era possibile imparare a memoria tutti quei fogli, perché mancavano solo poche ore all’inizio dello spettacolo, inoltre non sapevo pronunciare bene il dialetto "santangiolino". Don Luigi mi disse di non preoccuparmi, perché dovevo parlare con il sipario chiuso e lui mi avrebbe suggerito frase dopo frase nascosto dal tendone. Fu così che, solo poche ore dopo, alla ribalta di una sala (il Teatro S. Marta, ora demolito, N.d.R.), gremita da gente sconosciuta, esordii dicendo;

"Ma me se regòrdi

che quande sèri un fiulen

L’è vegnüde a cà mia

un santangiulen:

Done a gh’è la tila,

la tila cutina!

Siùra, che la töda,

che l’è propi buna.

Quande l’ha taiada

un quarantore!

N’ha töi vinte metri,

ma i èrun deseòte".

Il pubblico fece una bella risata, con qualche battimano e pochi fischi. Rincuorato e sostenuto dal suggeritore proseguii. Ad ogni frase il pubblico rispondeva con una risata. Acquistai fiducia in me stesso e come un attore di consumata esperienza mi fermavo, lasciavo tornare la calma e riprendevo:

"E quande Culumbe

l’è ‘ndai là in zu

l’ü el credèva

de tuà i Zulù

el s’è sbagliade!

I santangiulen

i èrun zamò là a vende

filsòn e ciuchen".

L’ilarità si era impadronita della sala: recitai molte altre frasi che non ricordo più, poi giunse un momento patetico e no si sentiva una mosca volare quando dissi:

"A Lode i disun che

i santangiulen

i en tüti ladri e asasen

ma la madre Cabrina

ghe l’han non a Lode,

l’è una barasina!!

Lur, i Ludesan

che i en larghi de buca

e strati de man, se i han

vursüde san Basan,

un sante de quèi bon,

i han duvüde

farsel prestà dai teròn"

A questo punto, scoppiò un applauso fragoroso, la sala era come calamitata (…).

A Sant’Angelo è abitudine chiamare alcuni personaggi con il soprannome, riportato persino sugli annunci mortuari insieme al nome anagrafico. E così, al momento che dovetti pronunciare qualche nomignolo, non sapevo a quale persona fosse riferito né se la cosa fosse gradita all’interessato. Ad ogni epiteto il clima si faceva sempre più incandescente.

Ne ricordo ancora qualcuno: "El lü", "Cimentu"," La Cifulina", "El Battisteu", "La Scavalcateci", "El Papalù", "Bigina Liù Liù"…Appena pronunciai questo nome, il frastuono diventò assordante (…). Pronunciai le ultime battute che fortunatamente erano d’ elogio alla cittadina ed alle sue attività commerciali ed al "prevustòn" (Il parroco mons. Giuseppe Molti, così chiamato per la sua grossa corporatura, N. d. R.). Tutti applaudirono e reputai che fosse un’esperienza da ricordare (…).Non avevo fatto in tempo a godermi un poco di questa effimera notorietà che, appena seduto, mi si presentò innanzi una donna, alta e larga come una porta: aveva i baffi e le guance pelose, appoggiò la sua mano grande come quella di carnera sulla mia spalla, e con la voce di un contralto mi disse: "Giuinòte, me a ti te fo gnèn, ma ti te ghè da dime chi l’è che l’ha scrite che la roba lì che te dì sül palco". Impaurito, quasi balbettante risposi che non lo sapevo, ed era vero. Ma la signora non volle sapere ragioni: non mi credeva. Allora domandai: "Lei chi è?". " Me son Bigina Liù Liù!". Non sapevo più quanti ne avevo in tasca, ma quando sembrò che tutto si mettesse per il peggio, intervenne qualche persona autorevole del posto e la "Bigina" si rabbonì, mi fece un sorriso, mi diede un colpetto sulla spalla per farmi capire che non era adirata con me, e si allontanò. La salutai e tirai un grande sospiro di sollievo.

Scoprii il nome dell’autore di questo scritto vent’anni dopo. Era don Ferruccio Ferrari, professore anche al Seminario Vescovile ed all’Istituto per Geometri e ragionieri, mio insegnante di matematica e ottimo sacerdote, erudito in molte discipline, persona esemplare ed indimenticabile. Egli aveva un’insolita chiarezza sia nell’esporre le sue idee, sia nella spiegazione di argomenti religiosi.

Raffaele Carelli

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