Con opere pittoriche di grande bellezza ha fatto dell’arte il motivo della sua vita
Giuliano Bonaventura ci ha lasciato

di Giampiero Brunelli


La scomparsa di una persona cara è sempre una ferita dolorosa e il vuoto che lascia nella sfera degli affetti più intimi è incolmabile, ma se la persona che ci ha lasciato è un artista, la mancanza sembra ancora più grande.
Non perché un artista valga più degli altri, ma perché ci viene a mancare, oltre alla sua presenza fisica, anche quella dimensione altra di sé con cui ci ha aiutato a vedere la realtà attorno a noi, filtrata dalla sua sensibilità.
È una verità che l’arte è uno stimolo a vivere meglio e questa peculiarità il vero artista la sente come una sorta di missione nell’intento di farci vivere un’esistenza protesa all’elevazione del pensiero, oltre la realtà quotidiana.
Giuliano Bonaventura o Ventura come più confidenzialmente lo chiamavamo, è stato tutto questo: artista nella forma più completa del termine con una filosofia di vita che trasmetteva attraverso la sua arte; un modo di essere a cui è rimasto fedele fino all’ultimo giorno quando, ai primi di giugno, ci ha lasciato.
Una dimensione artistica totale la sua, ai più conosciuta attraverso la sua pittura ma in realtà il suo vivere per l’arte nasce con la passione per la lirica come cantante, con studi al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano sotto la guida del tenore Aureliano Pertile che gli aprirà ribalte prestigiose accanto ad artisti di fama internazionale, avviando una promettente carriera ma che poi, purtroppo, dovrà interrompere per un problema alla voce.
La sua dedizione alla forma e al colore prenderà invece sostanza negli anni giovanili, frequentando dopo il Liceo Scientifico, per tre anni la facoltà di architettura a Milano e in seguito anche l’Accademia di Brera in cui avrà modo di approfondire ulteriormente concetti fondamentali che saranno elementi importanti nel favorirgli quella formidabile capacità innata di gestire con forza segno e colore, come rivelerà poi nella sua pittura.
Ne scaturirà un linguaggio sensazionale in cui il paesaggio e la figura, la natura morta piuttosto che le tipiche “processioni” o i mirabili interni di chiese in cui architettura e pittura si fondono in suggestive scenografie, saranno i soggetti di costante riferimento e a cui si affiderà per trasmettere il proprio messaggio di limpida e diretta comunicazione emotiva.
Giuliano Bonaventura era un pittore tradizionale come definizione ma intesa nel senso più completo e pieno del termine, poiché quando un artista riprende e interpreta tutto ciò che attinge a canoni estetici tradizionali che appartengono alla storia dell’Arte quali la magia di dipingere la luce degli Impressionisti, la fragrante pennellata dei Macchiaioli con riferimenti anche alla Scuola di Posillipo, deve necessariamente avere una solida struttura tecnica nonché un forte carisma espressivo.
Il suo è stato un canto libero intriso d’intensa poetica e ricca umanità e sostenuto da gioiose note di un’espressione artistica schietta e autentica, senza mediazioni fuorvianti o posizioni convenzionali.
Semplicità e sobrietà erano le cifre del suo modo di vivere; come Gruppo Pittori Santangiolini, di cui è stato componente fin dalla prima ora, un paio di anni fa gli dedicammo presso la Sala della Girona una mostra antologica e di questo evento si sentì molto onorato e anche commosso, ma era quasi imbarazzato dagli apprezzamenti che molti dei numerosi presenti in sala gli rivolsero durante l’inaugurazione e ricordo che, nel ringraziare tutti, alla fine disse “ma io ho solo dipinto delle tele”.
Lo studio di Maiano era il suo laboratorio d’idee intimo e riservato ma la natura era per lui l’habitat creativo forse preferito per dipingere “en plein air” luoghi e anfratti suggestivi del nostro territorio da consacrare sulla tela avvolti di inedita emozione. Quella di Giuliano era ed è una pittura senza avarizia, centro di forza e chiarezza, luogo d’incontro di sentimenti veri e di valori che portano in sé il senso sacro della vita.
Il tutto amplificato da una tecnica che non conosceva limiti e che trovava piena e completa definizione spaziando dalla matita al carboncino, dall’olio all’acquarello; mezzi con cui l’artista era quasi implacabile nel conseguire ad ogni costo il risultato voluto, seguendo quella “vis” creativa che travalica la passione per sfociare in una “religio” totalmente votata all’amore per l’arte.
È questa l’eredità che Giuliano ci lascia, a giusta dimostrazione che gli artisti rimangono nell’essenza del loro messaggio, nelle loro opere, nelle pennellate, nei segni incisi su un supporto qualunque reso sacro dall’espressione di chi crede nell’Arte e ne fa motivo di vita. Gli artisti allora non scompaiono, semplicemente vivono nelle vite degli altri e la loro arte è il privilegiato tramite di comunione che ci rimane, anche solo per un momento o per sempre.
Per questo il ricordo di Ventura sarà indelebile.

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