La “guerra” è finita?
Considerazioni all’indomani di una Liberazione. In differita

di Matteo Fratti

Erano camion militari quelli nelle immagini di quel 18 marzo, in uscita da Bergamo.
Hanno fatto il giro del mondo, cicatrici di un’immane tragedia di cui questa giornata potrebbe assurgere a simbolo, alla memoria delle vittime del coronavirus.
Se ne andavano le salme che più non trovarono posto nel cimitero della città lombarda e che pure hanno più e più volte fatto pensare alla pandemia come a una guerra.
Un paragone emotivamente forte e di facile presa, ma che a una lettura più approfondita non tiene: e perché una guerra si sa quando comincia, ma non si sa quando finisce; è frutto dell’umano e mai della natura; talvolta non v’è né cibo né casa, mentre sembra avere peso maggiore in termini di vite umane e contesti più circoscritti1. Se non fosse piuttosto nell’ottica del tutto proiettata in avanti di una ripresa economica, che il confinamento pareva aver già messo in conto: come se, quanto più tardivamente avessero attuato certe misure, tanto minore sarebbe stata la recessione.
Un’illusione ancor discussa in quel dopo che è oggi, sull’estensione o meno di certe “zone rosse”, mentre sottotraccia l’analogia tra guerra e pandemia si rivela un miraggio, dove il giocarsi il tutto e per tutto parrebbe ancora una volta a favore della sola economia, desiderio inarrestabile di tornare ad un “consumo, dunque sono”2 del precedente modello economico.
Ma se dalle ceneri delle guerre mondiali la risalita ha portato dalla povertà allo sviluppo, non sarebbe più possibile parlare di progresso allorché dalla situazione da cui usciamo tornassimo ai meri standard precedenti senza colpo ferire, cioè senza che tutto ciò ci abbia invece insegnato qualcosa; peggio: senza aver imparato nulla.
Per esempio, che sulla bilancia tra economia e salute forse l’ago dovrebbe pendere più a favore di quest’ultima, anziché su calcoli aziendali che avevano quasi allontanato da essa l’implicito concetto del prendersi cura.
Fermo restando poi che di quel che di simile a una guerra c’è stato, le ombre si sono protese paradossalmente proprio sul destino di coloro i quali davvero sopravvissero a dei conflitti mondiali, ma che non abbiamo saputo difendere dall’ultima pandemia. Sono anche loro, in gran parte, ad essersene andati, col loro bagaglio di memorie e testimonianze poco prima dell’alba di un altro 25 aprile, la cui eco di Liberazione ci giunge allora un po’ in differita, portando a chiederci, tra presunte analogie di cui sopra, se anche stavolta la “guerra” sia veramente finita. Non lo sarà mai, se la testimonianza di libertà che fu implicita nella Liberazione non venisse accolta dai giovani, che pure hanno subito il confinamento e la privazione dei contatti umani, ma che in parte si sono riversati in strada alla prima occasione di ventilate aperture.
Come fu anche per i molti adulti di quella domenica d’inizio marzo che pare ora d’altri tempi, in cui s’affollarono parchi, treni o piste da sci prima ancor che un’altra consapevolezza si facesse largo, oltre ai decreti - legge delle fasi di cui siamo stati testimoni; nel mentre che anche quel che s’è chiamato scuola è stato messo ai margini: non funzionale alla congiuntura sanitaria ...o a quella economica?
Eppure è proprio lì che potrebbero giocarsi gli equilibri di una rinnovata civiltà3, e dove si individua anche quella “mancanza” a cui sopperire quando il tenue filo dialogico tra i testimoni della prima metà del ventesimo secolo e la generazione del nuovo millennio paventa di spezzarsi in quei valori che l’avevano teso: per la dipartita degli uni; per le barriere che il “distanziamento sociale” ha innalzato tra gli altri. Quel distanziamento che, se percepito come il ritiro egoistico “via dalla pazza folla”4 non potrebbe avere che l’esito di inasprire quelle diffidenze nei confronti dell’estraneo in noi connaturate sin dall’infanzia, col rischio di trasformarsi nella nota “paura del diverso”: amata dalle dittature, contrabbandata in cambio di una vagheggiata sicurezza. Se colto invece come atto di responsabilità nei confronti dell’altro, diventa esercizio della libertà nel senso più alto del termine, consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni nel senso civico che rende possibile la vita di tutti, non solo individuale.
Occorre però non sacrificare il gesto di libertà che i nonni ci insegnarono contro tutti i fascismi, e che solo la generazione di mezzo adesso può veicolare ai figli, complice la scuola.
Parafrasando Sartre: “se i nazisti ci hanno insegnato ad essere liberi sottraendoci la libertà e obbligandoci a riconquistarla…” - afferma lo psicanalista Massimo Recalcati - “...il virus ci insegna invece che la libertà non può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio”5 -.
Un monito, più che una lezione: perché anche un’altra “guerra” possa dirsi finita e la Liberazione autentica, ancorché in differita.


1 Umberto Galimberti, Una pandemia non è una guerra, in D La Repubblica, 25 aprile 2020.
2 Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, 2010.
3 Marco Balzano, Suona l’ora di Educazione Civica. E Politica, in L’Espresso, 22 marzo 2020.
4 Thomas Hardy, Via dalla pazza folla, Fazi, 2016.
5 Massimo Recalcati, La nuova fratellanza, in La Repubblica, 14 marzo 2020.