La malattia del villaggio globale che chiude anche la scuola in una stanza

di Matteo Fratti

Buongiorno ragazzi, fate come se foste a casa vostra ... - Risate.

Perché a casa nostra, stavolta, ci siamo davvero. Ma non per un prolungamento di una vacanza, come poteva sembrare all’inizio di quest’emergenza sanitaria che neppure ci si immaginava, con le mascherine che abbiamo indossate ben oltre il Carnevale.
E nemmeno perché quell’unica pausa prima di Pasqua potesse allungarsi un po’ alla stregua di quella di Natale. No, no. Piuttosto perché oltre quelle due settimane, sancite da un Decreto dell’Otto marzo annunciato in una domenica sera più cupa che mai, cominciava a farsi strada l’idea che forse, non ci saremmo più rivisti tanto a breve.
Un’atmosfera alquanto insolita, come di quell’ultimo sabato a scuola, in cui già molti, troppi erano i banchi vuoti, e già anche qualche mascherina. E di nuovo, non per la giocosa liceità nell’imminenza pre-quaresimale, ma per un timore che si faceva largo, pur nei recessi di una coscienza neanche tanto remota, come uno scherzo di cattivo gusto.
Bastarono i giorni a venire a farcene rendere conto, e un po’ a macchia di leopardo, e per molti ma non per tutti, e in ogni caso, da un giorno all’altro ad alzare le barriere di un distanziamento sociale, come la sola cura contro un nemico alle porte, invisibile ma presente, in tutto quel che da quel momento, ha sfilato sotto i nostri occhi.

Eccoci qui allora, che imperante ha fatto breccia l’unica sola vicinanza possibile in quel mondo dietro alla linea del fronte: come in guerra, dove chi è sul davanti la combatte, dietro coloro che furono, oggi come allora, mai troppo al sicuro nelle loro case.
Impera quindi, nelle retrovie, l’unica maniera di approssimarci all’altro, che solo ci rimane: quella telematica, della rete, dal pc o dal telefonino, come pure da un tablet, ma pur sempre schermata e tanto osteggiata prima, quanto inflazionata ora.

È il nuovo presente, che vorrebbe materializzarci nelle case degli altri e pure ci ha materializzato a casa il luogo di lavoro, fin tanto che al capezzale dei molti (troppi) ammalati. E anche chi insegna, al pc, non sarà mai come a quella cattedra di una chiassosa aula scolastica, che trova proprio nella relazione il fulcro del dispositivo pedagogico. Ma ciò che nella frenesia del momento non avrebbe mai voluto alterarne la normalità, or (faticosamente) si ritrova in una nuova routine, che individua il suo apice anche in una quanto mai propagandata “Didattica a distanza”.
Un tenue filo, che sembrerebbe piuttosto caratterizzarla come “distante” allorché si volesse incastrare la scandita sacralità di molteplici ore scolastiche nel comune denominatore dei contesti domestici ed umani, soprattutto questi, i primi di cui tener conto.
Ma la “presenza” a dire il vero ormai “in remoto” si configura nell’immediato tra il più probabile degli scenari possibili, quanto agli sviluppi di questo morbo che ci infetta oltremodo nei rapporti sociali, in quelle relazioni sì altrettanto deboli per quelle generazioni tanto connesse in rete da essere parimenti sconnesse dalla realtà, tanto social nel web da essere egualmente anti-social nel mondo reale.
Non abbiamo forse insegnato in tempi non sospetti a staccarci dagli schermi, lasciare per un momento quegli strumenti del virtuale, che pure oggi ci tengono magicamente in contatto? Dovrebbe essere allora un’altra volta la scuola a non adempiere solamente alla funzione di “istruire”, quanto piuttosto a quella intrinseca alle singole discipline, dell’educare: a partire anzitutto dal giusto equilibrio nel discernere il tempo, quello dell’iper - connessione da quello dei rapporti familiari, quello dei compiti da quello della lezione on line, sia essa “sincrona” o “asincrona”.
Fu ai tempi dell’Undici Settembre che il terrorismo fece presagire proprio quel distanziamento sociale che oggi si fa strada nell’unica via percorribile per questo “impasse”, rischiando di innalzare all’indomani più barriere di quanto i limiti sociali ci impongano ora. Salvo, di reazione, generare quel desiderio di incontrarsi “dal vero”, che nelle giovani generazioni soleva già venir meno allorché nell’intervallo di un tempo di scuola, per esempio, lo sguardo tra compagni indugiava più sul cellulare che tra i loro occhi.
Una distanza relazionale che il dopo più che mai dovrà imparare a colmare. Al contempo importante rimane qualsiasi forma di contatto in questo nuovo presente, non ultimo quello con noi stessi alle prese con un tempo nuovo. Nel mentre che il virus che ha generato barriere è allo stesso modo, assieme al tempo dell’iper – connessione come una paradossale fine della socialità, l’ultimo tragico esempio di quel che ci resta della globalizzazione.
Di questo fenomeno a scala planetaria: - “… la globalizzazione …” – disse il sociologo polacco Zygmunt Bauman, precursore dei tempi – “..divide mentre unisce, e le cause della divisione sono le stesse che, dall’altro lato, promuovono l’uniformità del globo”. E a fronte di un’economia che già vagheggiava di protezionismi, sembra che ancora una volta la natura non abbia conosciuto confini.