Ricordi di un mondo scomparso, quando alla Gibellina si faceva il formaggio
Viaggio in una delle più importanti cascine di Sant’Angelo, dove fino agli anni Settanta si producevano burro e grana. Censita fin dal 1620, rappresentava un piccolo mondo,
dedito all’allevamento dei bovini e dei suini, alla coltivazione e all’arte casearia

di Lorenzo Rinaldi

Nel 1620, anno in cui viene compilato il primo Stato d’Anime (il registro parrocchiale che annota gli abitanti e le variazioni della situazione demografica) a Sant’Angelo viene censito un gruppo di venti cascine, preesistenti a quella data, che rappresentano le strutture e gli insediamenti più antichi esistenti sul territorio, la cui origine va fatta ascendere all’età tardo-medievale o alla prima età moderna (almeno dai primi del Quattrocento).
Tra gli insediamenti più rilevanti troviamo Galiotta (poi Galeota), Resiga (poi Resega), Maian (poi Majani e Maiano), Graminello, Belfugi (poi Belfuggito), Ranera e Gebellina (attualmente Gibellina). Quest’ultima, dislocata a 1,8 chilometri a ovest di Sant’Angelo, raggiungibile oggi staccandosi dalla strada provinciale che porta a Valera Fratta, compare per la prima volta negli archivi nel 1620 con il nome di Gebellina, poi mutato con il passare dei secoli in Gebilina, Gibelina, Giubelina, tutte varianti di uno stesso nome originario, cioè Ghibellina, possessione dei ghibellini o di una famiglia schieratasi a favore delle forze imperiali.

Una cascina antica, un piccolo mondo

La cascina presenta alcuni edifici molto antichi, risalenti al 1300, mentre in epoca fascista è avvenuto un ampiamento che ne ha modificato l’originaria struttura. Vi sono la casa padronale e una vasta aia circondata dalle case coloniche, a testimonianza di un passato in cui il numero degli abitanti era rilevante. Gli Stati d’Anime ci dicono che la cascina era abitata da una trentina di persone nel 1600 (a queste dobbiamo probabilmente aggiungere quanti abitavano altrove ma vi lavoravano), che salgono a circa 60 nel 1700 per arrivare, all’epoca dell’Unità d’Italia (metà 1800) a circa 90. Nella seconda metà del Novecento si contavano fra le 15 e le 20 famiglie.

Le foto ritrovate e i ricordi di Aldo Biffi

Oggi tutto è cambiato e anche la Gibellina ha seguito il destino della maggior parte delle cascine del nostro territorio, nelle quali lavora una piccola parte della popolazione.
Qualche mese fa, però, il fotografo Emilio Battaini, storico collaboratore de “Il Ponte”, ha fatto riemergere dagli archivi tre fotografie in bianco e nero (che riproduciamo su questo numero) e che testimoniano la lavorazione del latte alla Gibellina. Gli scatti, risalenti al 1976, “raccontano” di quando alla cascina Gibellina si producevano il burro “Stella Alpina” e il grana. Una interessante curiosità, che abbiamo cercato di ricostruire grazie ad Aldo Biffi, santangiolino classe 1942, che dal 1962 al 2009 ha lavorato proprio alla cascina Gibellina occupandosi delle vacche e diventando capo stalla.

Il caseificio interno alla cascina Gibellina

“Quando ho iniziato, nel 1962, eravamo in nove e dovevamo occuparci in media di una quindicina di mucche a testa - racconta Biffi -, il numero dei lavoratori si è ridotto progressivamente con l’introduzione della stalla all’aperto e con il passaggio dalla mungitura manuale a quella meccanica e poi con l’apertura della sala di mungitura, nel 1974”. La cascina e i terreni circostanti, di proprietà della famiglia Danelli di Milano, erano gestiti dagli Invernizzi di Sant’Angelo (Francesco Invernizzi ricoprì anche l’incarico di assessore in una delle giunte del sindaco Gino Pasetti).
Alla Gibellina si concentravano più attività, l’allevamento dei bovini e la successiva lavorazione del latte, l’allevamento dei suini e la coltivazione, finalizzata soprattutto ad alimentare il bestiame. La produzione casearia è certamente la più interessante perché testimonia che alla Gibellina era attivo un caseificio, almeno fino agli anni Settanta. Biffi ricorda infatti la produzione del grana fino al 1976/1978 circa, mentre successivamente il latte venne conferito alla cooperativa Santangiolina di San Colombano al Lambro. Gli ultimi anni della produzione casearia furono contrassegnati da due avvenimenti: la morte del casaro Gino Gorra (che abitava in cascina ed era originario dell’Emilia Romagna) e l’introduzione di normative più stringenti che spinsero alla chiusura numerosi caseifici interni alle cascine.
Tutto il latte prodotto dalle mucche razza frisona della Gibellina era destinato alla produzione di formaggio e burro, ma non era sufficiente e per questo l’“oro bianco” veniva acquistato anche da altre cascine della zona. “Ogni giorno - dice Biffi - si lavoravano una decina di quintali di latte prodotti alla Gibellina e altrettanti venivano acquistati all’esterno. In un giorno si producevano mediamente 5/6 forme di grana al quale va aggiunto il burro. Nel caseificio, oltre a Gorra, c’erano altre 3/4 persone”.

Fino a 1200 forme di grana sugli scaffali per la stagionatura

L’attività iniziava presto, attorno alle 4 del mattino, con la prima mungitura (la seconda era alle 16 circa). Il latte finiva poi nel “caşon” (il caseficio) dove veniva lavorato per farne burro fresco e formaggio. Le forme di grana venivano infine stoccate nel magazzino di stagionatura, per restarci anche un paio d’anni. “Contemporaneamente c’erano fino a 1200 forme impilate sulle scaffalature in legno - aggiunge Biffi - e fino a poco tempo fa se si andava all’interno del magazzino, ormai vuoto, si poteva sentire il profumo del formaggio, che aveva impregnato i muri”.
Burro e formaggio prendevano poi la via della distribuzione, attraverso botteghe e negozi. Venivano riforniti anche enti religiosi. Parte della produzione veniva però venduta direttamente in cascina: “Ricordo ancora - dice Biffi - la processione delle donne in bicicletta che venivano a comprare il burro”.
Nelle campagne lodigiane generalmente il “caşon” era collocato vicino alle stalle e spesso, anche nel caso della Gibellina, c’era pure un allevamento di maiali, sovente alimentati con il siero scartato dalla produzione del latte. La parte più importante del “caşon” era la camera di lavorazione, un grande stanzone che ospitava le caldaie e dove il latte veniva cotto, lavorato, cagliato, trasformato in formaggio, messo nelle fascere (“fasère”) e poi inviato alla stagionatura. Un piccolo mondo operoso oggi scomparso in molte delle nostre cascine.
Fine prima parte

(Alcune informazioni sono state tratte da “I luoghi e il tempo” pubblicato dall’istituto tecnico Raimondo Pandini di Sant’Angelo Lodigiano e da ”Vivere di cascina” di Peppino Barbesta, Giacomo Bassi, Aldo Carera e Renzo Cattaneo)
Foto di Emilio Battaini

IL PONTE - foglio dinformazione locale di SantAngelo Lodigiano