Un mondo contadino fatto di sacrifici e fatica

Anche gli ortolani tra gli antichi mestieri santangiolini


“Finchè ghè ravén, ghè quatrén”. (Finché ci sono rape, ci sono soldi). È uno dei modi di dire degli ortolani di Sant’Angelo. Gli urtulàn hanno rappresentato per molto tempo una parte significativa dell’economia del paese, caratterizzando con la loro presenza il quartiere di Santa Maria, anche se famiglie di ortolani si potevano trovare pure in altre zone di Sant’Angelo.
Quello degli ortolani era un lavoro duro, fino alla metà degli anni Sessanta quasi completamente manuale, se si esclude l’utilizzo degli animali per trainare aratri e carretti. Un lavoro che assorbiva le energie dell’intera famiglia, uomini, donne e bambini e che, specie nei periodi della raccolta di particolari ortaggi permetteva anche alle donne pro-venienti da altre famiglie di essere assunte “a giornata”. Così come per altri lavori, anche per la figura dell’ortolano è difficile trovare analogie negli altri paesi del Lodigiano: a caratterizzare e rendere unici nella zona gli urtulàn barasini erano la tipologia e la varietà di ortaggi coltivati, tanto da renderli simili agli ortolani che lavoravano nella cerchia di Milano e che rifornivano le tavole del capoluogo lombardo.
Raccontare la storia degli ortolani santangiolini significa quindi intraprendere un percorso a ritroso nel tempo. Per farlo ci siamo affidati ai ricordi degli storici ortolani Giovanni Vitaloni (6 marzo 1926, borgo Santa Maria), Antonio Bellani (19 giugno 1928, borgo Santa Maria) e di Mario Sommariva, nato il 28 aprile 1954, residente in via Costa e uno degli ultimi ortolani in attività nel territorio.

Le famiglie storiche
Difficile ricostruire l’elenco di tutte le famiglie impegnate in questo lavoro a Sant’Angelo. Nel corso del Novecento si segnalano le famiglie Maioli, Cantoni, Vitaloni, Cabrini, Rozza, Bianchi, Passoni e Grossi (questi ultimi certamente attivi nel quartiere San Rocco). A borgo Santa Maria erano presenti anche i Cambielli, i Bellani e i Sommariva. In molti casi (specie nella zona della Costa e di Santa Maria) le famiglie degli ortolani erano imparentate fra loro. E il lavoro dei padri veniva tramandato ai figli. Il numero maggiore di ortolani, come detto, era rintracciabile in borgo Santa Maria, nella parte di paese che guarda al confine pavese. I campi degli ortolani erano quindi tra Sant’Angelo (la zona dell’attuale Malpensata) e Villanterio, oppure nell’area della Sanmarti-na, verso Graffignana. Altre famiglie si potevano trovare in borgo San Martino, in via Statuto (la Masaia), in via Diaz e alla Pedrina, cioè la cascina che si trova all’inizio di via Mazzini proveniendo dalla circonvallazione.
I campi in cui si coltivavano gli ortaggi, generalmente, non erano di proprietà degli ortolani. I contratti di affitto, spesso basati unicamente sulla parola e su una stretta di mano, venivano rinnovati di anno in anno. Talvolta la famiglia di ortolani prendeva in affitto un’intera cascina e dunque allevava anche il bestiame: ma si tratta di casi spo-radici. I campi coltivati variavano da 5/6 pertiche (3270/3924 metri quadrati) a circa 15 pertiche (9810 metri quadrati) anche se non è semplice quantificare con precisione gli appezzamenti medi di terreno presi in locazione da un singolo ortolano, anche perché non sempre erano contigui.

Il lavoro e le stagioni
Il lavoro dell’ortolano, almeno nella sua concezione originaria, era manuale e impegnava l’intera famiglia. Nella fase della raccolta, per taluni ortaggi (soprattutto zucche e rape), gli ortolani “assumevano” a giornata o per brevi periodi manovalanza supplementare: erano generalmente le braccia delle donne ad aiutare le famiglie degli ortolani quando l’attività diventava più intensa.
Lavorando in aperta campagna, l’ortolano era soggetto ai ritmi delle stagioni e alle intemperie ed era costretto a sfruttare a pieno la luce del giorno (in estate dunque si iniziava all’alba, anche alle 5, e si terminava solo al tramonto). I mesi “morti”, quelli con minor lavoro, erano gennaio e febbraio, che venivano dedicati alla manutenzione degli attrezzi. Da marzo a dicembre, con differenti varietà, si lavorava senza sosta. Occorre però considerare che i mesi iniziali erano dedicati alla sistemazione dei terreni e alla semina e dunque i primi incassi arrivavano soltanto a fine maggio, con la vendita dei primi piselli raccolti.


Sopra, da sinistra, Mario Sommariva, Giovanni Vitaloni e Antonio Bellani

Gli ortaggi coltivati
La semina iniziava a marzo con i piselli, poi arrivava il tempo dei meloni e dei fagioli (aprile). In primavera venivano seminate anche le zucchine, introdotte però solo negli anni Sessanta e che hanno segnato una piccola “rivoluzione”. A fine luglio si seminavano le rape, che garantivano un lungo periodo di raccolta, coprendo anche i mesi autunnali.
Altri ortaggi coltivati erano le zucche e i pomodori. Questi ultimi si diffusero soprattutto nel periodo della Seconda guerra mondiale ed erano gli unici per i quali non si seminava, ma si inseriva direttamente nel terreno la piantina. Accanto agli ortaggi si coltivavano anche piccoli appezzamenti a frumento, granoturco e prato: questo per permettere ai terreni di riposare visto che la coltivazione degli ortaggi era di carattere intensivo. Prima dell’introduzione del mais, gli ortolani piantavano il “Marano”, una tipologia di granturco caratterizzato da pannocchie piccole e con minor resa, ma che garantiva un’eccellente polenta: non è chiaro però se il termine “eccellente” sia appropriato o se era dettato dalla fame.

Rape e meloni
Le rape, come detto, permettevano un lungo periodo di raccolta, che si protraeva anche quando gli altri ortaggi “uscivano di produzione” per il freddo. E ogni giorno era possibile raccogliere le rape mature e portarle all’Ortomercato: questo garantiva un’importante e costante fonte di reddito. Non solo: parte delle rape veniva venduta alle aziende (ad esempio la Cirio) che producevano giardiniera e canditi. In assenza di strutture adeguate per la conservazione fino alla vendita, nei periodi freddi le rape venivano ammucchiate sotto terra (in grandi piramidi) e questo evitava che il gelo le danneggiasse.
Un’altra coltivazione particolare era quella dei meloni: tra Sant’Angelo e Villanterio si coltivava il melone ovale e la raccolta durava circa un mese, tra metà luglio e metà agosto. Gli ortolani facevano grande affidamento su questa col-tivazione, perché una buona “stagione” dei meloni (senza grandine) poteva rimettere in sesto le economie familiari.
Una volta raccolti, i meloni venivano portati a Milano per la vendita: ma quando la produzione era particolarmente elevata, i mercati di sdoppiavano e parte dei meloni prendeva la direzione di Pavia. La particolarità dei meloni, infine, è che richiedevano “terra vergine”: un campo poteva ospitare questa tipologia di coltivazione soltanto a intervalli di circa dieci anni.

Dalla semina alla raccolta
La prima attività degli ortolani, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, era la preparazione dei bastoni (le broche) che avrebbero dovuto sorreggere le varietà di rampicanti come i piselli e i fagioli. In quest’ultimo caso, gli ortolani si spingevano fino a Belgioioso (e paesi limitrofi) dove potevano trovare broche in salice provenienti dalle sponde del fiume Po.
La preparazione dei terreni prevedeva l’uso di aratri ed erpici, fino agli anni Sessanta trainati da cavalli. Le parti metalliche di questi attrezzi erano prodotte dalla ditta santangiolina Samadoval, i cui operai, poi, assistevano gli ortolani in caso di guasti o rotture. Seguiva la semina, operazione che veniva effettuata a mano. Le sementi venivano generalmente acquistate a Milano, da Mazzocchi in via Perugino, storico produttore e rivenditore originario di Casalpusterlengo.
La stagione della raccolta (anch’essa manuale) iniziava a metà maggio con i piselli e si protraeva fino al termine di dicembre con le ultime rape. Una volta raccolti, gli ortaggi venivano portati nelle case degli ortolani con carretto e cavallo: qui venivano puliti e messi nelle cassette in legno. Le rape venivano lavate, dentro grandi botti piene d’acqua, utilizzando la masola. A questo punto partivano i carretti verso Milano, destinazione Ortomercato (in via Cadore), dove vendevano a peso.
Dagli anni Sessanta, alcuni ortolani santangiolini riuscirono ad avere dentro l’Ortomercato degli stalli di vendita privati. Per essere a Milano con la merce alle 5 del mattino, gli ortolani dovevano partire cinque-sei ore prima da Sant’Angelo. In una seconda fase entrarono in scena i curéri barasini, cioè dei trasportatori privati (i moderni camionisti) che facevano la spola Sant’Angelo-Milano: tra questi i Lucini, i Biancardi e i Tonali.

L’irrigazione e il cavo Marocco
Le coltivazioni ricomprese nei territori di Sant’Angelo e Villan terio, cioè quelle degli ortolani di borgo Santa Maria, erano irrigate principalmente attraverso l’acqua del cavo Marocco, un canale che si stacca dalla Muzza nel Sudmilano e si getta nel Po a Pieve Porto Morone, dopo aver toccato i territori del Milanese e del Pavese. L’irrigazione avveniva a scorrimento: venivano riempiti i fossi e si alzavano la paratie dei chiusini, per far affiorare l’acqua al livello dei campi.
La gestione del complesso sistema di irrigazione era in carico ai campè, mentre gli ortolani “acquistavano” l’acqua di anno in anno, rivolgendosi alla “casa” Marocco, vale a dire la struttura di gestione del cavo Marocco situata a Villan-terio. Poteva capitare, in estate, che l’acqua acquistata con il contratto annuale fosse insufficiente: a quel punto gli ortolani comperavano acqua “supplementare”, pagandola di più (in avventizio). Non essendoci pompe (almeno fino all’arrivo dei mezzi meccanici), se il livello dell’acqua nei fossi era troppo basso e non raggiungeva i campi, gli ortolani erano costretti a palà l’acqua: utilizzando delle pale in legno gettavano l’acqua dal fosso al campo, un’operazione che poteva durare anche un’intera notte.
Risale poi al 1944 un episodio curioso: il cavo Marocco non era in grado di assicurare acqua a tutti gli ortolani, così i vigili del fuoco volontari di Sant’Angelo avevano prelevato l’acqua dal Lambro, portandola nei campi.

L’iscrizione alla Coldiretti
Fino alla metà del Novecento le tutele per gli ortolani barasini erano scarse. A partire dagli anni Cinquanta, però, la maggior parte di loro si era iscritta ai Coltivatori diretti (Coldiretti), associazione di matrice cattolica e che dunque aveva una largo seguito nel nostro territorio. Meno diffusa era invece l’Unione. E tramite la Coldiretti venivano offerti svariati servizi, come quella che i vecchi ortolani chiamano la mutua.
Il Consorzio agrario (pure collegato alle associazioni dei coltivatori) offriva invece le assicurazioni sulle coltivazioni tramite la Fata. I prodotti assicurati, tuttavia, non erano molti: la polizza per gli ortaggi, infatti, risultava spesso troppo costosa.
Per contro, non mancavano gli esempi di solidarietà tra ortolani. Come detto, molti erano legati da vincoli di parentela, o quantomeno vivevano negli stessi quartieri, negli stessi cortili. Tanto Giovanni Vitaloni, quanto Antonio Bellani, ricor-dano bene un episodio significativo: un ortolano si era gravemente ammalato e il carico del lavoro era passato tutto alla moglie; gli altri ortolani si erano pertanto organizzati, per aiutare gratuitamente la donna, specie nei lavori più pesanti. Al di là dei casi particolari, l’aiuto reciproco tra ortolani era prassi e così, quando uno era oberato dagli impegni, poteva sempre trovare sostegno in qualche collega.

Gli episodi della guerra
Il lavoro degli ortolani, a differenza di altri mestieri, non ha subito pesanti ripercussioni durante il tempo di guerra, se si esclude il problema della carenza di manodopera. I più anziani ricordano bene che, nel corso della Seconda guerra mondiale, veniva generalmente proibita dalle autorità la coltivazione dei meloni, da sostituire con quella del grano, necessario per la produzione del pane. Bisognava allora recarsi in Comune e richiedere l’autorizzazione per poter seminare i meloni. Sempre in tempo di guerra, capitò che alcuni ortolani furono costretti dalle autorità a piantare il ricino, dal quale si estraeva il “famigerato” olio.

Gli anni della “rivoluzione” e il declino
Gli anni Sessanta coincidono con una vera e propria “rivoluzione” nel settore. In primo luogo perché aumentano le varietà coltivate, con l’introduzione della zucchina, arrivata da Milano, dove già era coltivata. La zucchina, come detto anche in precedenza, comporta una crescita del reddito degli ortolani perché garantisce una raccolta continua, nel periodo estivo, per tre/quattro mesi. Si affacciano poi le coltivazioni di cornette, fagiolini verdi e taccole. A metà degli anni Sessanta arrivano trattori e macchinari motorizzati, e le pompe per l’irrigazione. I cavalli vanno dunque in pensione. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il numero degli ortolani a Sant’Angelo inizia a diminuire: gli anziani vanno in pensione e i figli non proseguono il lavoro dei padri, prendendo altre strade. In poche parole, non si registra più quel ricambio generazionale che aveva contraddistinto questa particolare attività.
Uno degli ultimi ortolani a proseguire nel lavoro è Mario Sommariva, santangiolino, figlio di ortolani. I suoi campi sono nel territorio di Villanterio. La gamma dei prodotti coltivati si è notevolmente ampliata e così troviamo insalata, zucchine, coste, erbette, spinaci, melanzane, pomodori, rucola e rape: il tutto venduto a Milano, al nuovo Ortomercato, quello di via Lombroso.
Lorenzo Rinaldi


IL PONTE - foglio d'informazione locale di Sant'Angelo Lodigiano


Angelo Vitaloni nell’atto di seminare