La mustarda nègra

La cucina di una volta


In tempi di fast food, hamburger e salse preconfezionate il gusto tende sempre più a uniformarsi e i piatti hanno tutti lo stesso sapore. Eppure fino a qualche anno fa resistevano ricette tipiche, gusti e aromi rintracciabili soltanto in determinate località e in specifiche stagioni. I ricordi dei nostri nonni, per fortuna, ci permettono ancora di conoscere un universo di ricette e piatti poveri che caratterizzavano le tavole dei santangiolini quando il benessere era meno diffuso di oggi e allora bastava anche la “rüsca” (la buccia) di un melone per inventarsi un piatto prelibato.
La “mustarda cui nastulén”, conosciuta anche come “mustarda nègra”, rientra a pieno titolo fra i piatti poveri santangiolini, perché richiede pochi ingredienti e una spesa limitata, nonostante la sua preparazione un tempo impegnava a lungo le massaie.
La “mustarda nègra” non è altro che una mostarda prodotta con le bucce dei meloni (in altre versioni si univano anche fichi acerbi, bucce di limoni e di mele cotogne), e lo scarto della lavorazione del miele, chiamato “melìna”.Dopo aver consumato il melone, nei mesi estivi, le donne di casa ripulivano con dovizia le bucce e le mettevano a seccare, in modo che fosse possibile conservarle. Era questo il primo passaggio, fondamentale, per ottenere una buona “mustarda cui nastulén”.
Era necessario poi acquistare dagli apicoltori la “melìna”, un residuo della lavorazione del miele, che non finiva nei barattoli. Era proprio questa “melìna” ad amalgamare per bene la mostarda. “Nastulén” e “melìna” finivano all’interno di una grossa pentola, messa sul fuoco (“el fugòn”), e per ore interminabili cuocevano insieme, in modo tale da diventare un tutt’uno. La “mustarda”, man mano che la cottura le dava consistenza, diventava sempre più scura, da qui l’appellativo di “nègra”.
Terminata la lunghissima cottura, che se-condo alcune declinazioni della ricetta doveva durare addirittura diversi giorni, non restava che conservare la “mustarda cui nastulén” in barattoli di vetro, in modo da proteggerla dall’aria. La mostarda restava nell’“ula” fino ai rigori dell’inverno, quando veniva portata in tavola con la classica polenta.
Una ricetta, dunque, semplicissima da provare, benché richieda lunghi tempi di preparazione, che forse le nostre cuoche oggi non possono più permettersi. Un piatto povero, che testimonia come anche nelle nostre terre, prima dell’arrivo del benessere diffuso, non si buttava via niente.
Lorenzo Rinaldi