La storia di Anila, che ha lasciato alle spalle dure vicissitudini e sofferenze

“Ho ricominciato a vivere”

In Italia è venuta per ricongiungersi al marito, partito in cerca di lavoro poco tempo prima. Adesso è divorziata. Lui è tornato in Albania (Durazzo l’origine), lei è rimasta qui. L’italiano, come molti connazionali, l’ha imparato guardando la tv, ma quello che colpisce, ascoltandola, è il fatto che molti dei nostri modi di dire fanno ormai parte del suo linguaggio.
Lavora come inserviente e aiuto cuoca presso la scuola d’infanzia Madre Cabrini e da qualche anno lo fa insieme alla sorella, anch’essa divorziata e madre di due figlie.
Dopo un periodo piuttosto lungo durante il quale hanno condiviso, insieme alla madre anziana, un appartamento in affitto, adesso paga un mutuo per riscattare un piccolo bilocale acquistato ammobiliato all’ultimo piano di un condominio, ex proprietà del Comune. È il “lieto fine” della storia di Anila Pulaha, albanese, 34 anni, una donna che, lasciate alle spalle le sofferenze e la durezza del passato, oggi può dirsi: “realizzata”.
“Io lavoravo là – racconta, ripensando a quando ancora stava al di là dell’Adriatico – in un negozio di pane, era il negozio del governo, ora sono tutti privati. – L’Albania è stata a lungo una dittatura comunista, sotto il regime di Enver Hoxha – Mio marito lavorava qua, faceva il mungitore”. Era il 1995 e l’Italia, per Anila e consorte, era rappresentata dalle cascine di Mirabello prima, dove sono rimasti per sei mesi, e di Senna Lodigiana poi, per altri due.
“Una casa bruttissima – afferma Anila parlando della loro sistemazione dopo il trasferimento – ma era l’unica abitabile. Senza gas metano, brutta, senza riscaldamento. Abitabile per modo di dire – e commenta – secondo me, non si poteva vivere lì”. Il lavoro come mungitore, inoltre, è duro. Le mucche vanno munte e non importa se siano le due del pomeriggio o della notte, ed è ancora più duro, e quasi insopportabile se fatto controvoglia, con poco spirito di sacrificio e scarsa volontà. “Era un ragazzo difficile”, sono le parole di chi ripensa al passato tentando, forse, di attenuarlo. Nasce una bimba, che oggi ha dieci anni, e l’evento è accompagnato da un nuovo trasferimento. Questa volta la destinazione è Crespiatica, dove già abitano i parenti di lui.
Si sistemano presso l’abitazione di Franca Betti, attuale vice presidente delle Acli di Lodi. “Mi aveva lasciato il pian terreno – spiega Anila, sottolineando che ancora intrattengono buoni rapporti, al punto da considerarla una seconda madre – lei abitava di sopra”. In cambio, Anila lavorava per la sua famiglia, un po’ come badante al seguito del padre e un po’ come domestica. Il marito, nel frattempo, non solo non riesce a trovare lavoro, ma rivela il proprio carattere aggressivo al punto da constringere la Betti ad allontanarlo.


Giovani albanesi nei loro costuni radizionali. (foto Emilio Battaini)


“Una volta – racconta – mi ha strappato tutti i documenti durante una discussione e in quel momento mio padre stava morendo in Albania”. Questo, naturalmente, ha significato non poterlo andare a rivedere senza precludersi la possibilità di tornare in Italia. Lei e la piccola rimangono per un po’ da sole, ma pensando alla famiglia Anila accetta di tornare col marito, vicino ai parenti.
Ma la voglia di andarsene, lontano, fino a Reggio Calabria, dove, come la Betti le fa notare riuscendo a trattenerla, ancora meno c’è possibilità di impiego, solo per avere l’appoggio e il sostegno dei legami di sangue, non tarda a farsi sentire.
Nel 1998, per la prima volta Anila viene a Sant’Angelo con l’intenzione di chiedere ospitalità presso le suore di Madre Cabrini, e l’allora superiora, suor Palmira Castelnuovo, tentando di farla desistere dal dividere la famiglia, le offre anche un lavoro di cuoca. Lo accetterà in aprile e concluderà i tre mesi di prova continuando a vivere col marito. Lui: “Lavorava due mesi, tre mesi, litigava, sbatteva lì il lavoro, non voleva sapere se aveva una famiglia. Per lavorare quei tre mesi ho dovuto portare la bambina da mia mamma – in Albania – e mi dicevo che pian piano le avrei portate qua”. “Dopo tre mesi la bambina non mi riconosceva più, aveva due anni”. Arriva la mamma e parte per l’Albania suo marito, lasciando il lavoro in una cooperativa e portando con sé quanto guadagnato in quel breve periodo. Non torna per quattro mesi, e mai una volta chiama casa. Torna senza una lira e: “Lui la bella vita, e io dovevo sgobbare per mantenerlo – oltre la mamma e la figlia – inoltre, sopportare botte e parolacce”. “Quando anche suo fratello si è permesso di venire a mettermi le mani addosso non ce l’ho fatta più. Ho chiamato i carabinieri e me ne sono andata. Da quella sera non sono più tornata a casa”.
“E’ dura – afferma parlando della vita che conduce oggi, in mezzo a noi – non solo fisicamente, con il lavoro (per pagare il mutuo non le basta l’occupazione presso la scuola, il suo impegno continua dopo cena presso una palestra di cui è socia, e presso la quale segue dei corsi, rendendosi disponibile per le pulizie), ma anche psicologicamente con la gente che ti circonda, perché non sempre tutti ti accettano e ti vogliono”. Anche con i connazionali i rapporti sono scarsi, quelli che resistono sono i legami familiari.
Fortunatamente, per quello che riguarda l’asilo può dire: “Sono molto contenta di lavorare lì, ho un bel rapporto con i bambini e io sono realizzata, sono contenta di essere arrivata qua”.
È albanese Anila ma, se non fosse per quell’accento che credo un po’ tutti abbiamo imparato a riconoscere, si potrebbe non accorgersene. Crede in Dio, e nella nostra Basilica in una notte di Pasqua è stata battezzata, vive e lavora in mezzo a noi, sua figlia frequenta le nostre scuole, rimane solo l’atteggiamento prevenuto di qualcuno a farla sentire ancora qualche volta diversa. Perché Anila, ormai, è una di noi.
Fulvia Cresta