L'amore di Carlo Crespi per la montagna
Alla conquista delle grandi cime

Carlo Crespi (a destra) con Luigi Altrocchi,
al cospetto dei grandi ghiacciai delle Alpi Occidentali

Kilimangiaro, Ande, Himalaya, sul tetto del mondo a quota 6mila. E poi la scalata delle pareti rocciose della California, l'ascesa alle cime verdeggianti di Laos, Birmania e Thailandia, la scoperta del monte Bianco, del monte Rosa, del gruppo del Bernina.
Sul diario di viaggio di Carlo Crespi, 49 anni, impiegato bancario, le cime sono annotate con precisione. Da Sant'Angelo è sempre partito portandosi dietro un grande amore per la montagna. Nel corso degli anni le vette lo hanno plasmato, come uomo, scavandolo dentro, costringendolo al confronto con l'immensità della natura. Lui è salito in alto, sempre più in alto, fin dove osano le aquile. E poi ancora più su: sulla sua testa il cielo e nulla più.
E ora ha accettato di raccontarsi, di spiegare come uno nato a Sant'Angelo, nel cuore della pianura, possa rimanere stregato da una cima innevata. E il giorno dopo, ritrovarsi tranquillamente allo sportello di una banca.
Chi è Carlo Crespi? Come si è innamorato della montagna?
"Penso che come tutti i santangiolini che amano la montagna, la prima scintilla sia stata il campeggio estivo dell'oratorio. Ricordo l'epoca di don Lorenzo Gatti, all'inizio degli anni Settanta, la Val d'Aosta, il campeggio di Cogne. Ricordo le prime passeggiate, da adolescente. Poi è venuta la scuola di alpinismo al Cai di Milano, nel 1978. E da lì è nato il grande amore per le cime, le scalate su roccia e su misto, cioè su ghiaccio e neve. Il grande salto però è datato 1979, alla scuola di arrampicata ai Ragni di Lecco, uno dei gruppi di alpinismo più famosi in Italia e all'estero. Ogni buon arrampicatore, si forma sul gruppo montuoso della Grigna, che domina il lago di Lecco, al cospetto di una roccia che presenta parecchie difficoltà".
Lei si definisce un alpinista occidentalista. Ma cosa vuol dire?
"Dopo la Grigna sono venute le grandi cime, il monte Bianco, il monte Rosa, l'Adamello, il gruppo del Bernina. Tutte nelle Alpi occidentali, oltre i 4mila, con grandi ghiacciai e distese innevate. Da qui il termine occidentalista. Ho frequentato invece meno la parte orientale delle Alpi, ad esempio le Dolomiti, forse anche perché sono più lontane da raggiungere. Poi sono uscito dall'Europa e ho scalato il Kilimangiaro, il vero gigante africano".
E come è arrivato in cima a un colosso di quasi 6mila metri?
"La scalata è stata effettuata dal versante della montagna che si trova in Tanzania. Sono partito con tre compagni di viaggio nel mese di aprile del 1985. In precedenza avevamo fatto un'intensa preparazione sulle alte quote italiane. Ma devo ammettere che una volta arrivati in Africa, appena abbiamo superato una certa altezza, è cambiato tutto. Il Kilimangiaro è un altopiano con due coni vulcanici enormi e un territorio vastissimo. Siamo partiti dal campo base di Marango a 1800 metri, dove abbiamo assoldato i portatori. E poi, durante l'arrampicata, abbiamo piantato le tende prima a Horombo (2800 metri), poi a 3700 e a 4700 metri. La salita è durata sette giorni, ma non è stata tra le più faticose, forse perché il ghiaccio lo abbiamo incontrato solo sopra i 5mila metri. E' stata un'esperienza alpinistica che mi ha colpito anche dal punto di vista umano".
Dal punto di vista umano? Cosa vuol dire?
"Mi spiego: in caso di emergenza sulle nostre montagne, sulle Alpi, in cinque minuti arriva l'elicottero di salvataggio. In Africa l'elicottero non c'è, sei solo con te stesso, se succede qualcosa allora il ritorno a casa può diventare davvero un problema. L'unica cosa da fare è affidarsi alla forza del gruppo. Inoltre questo viaggio mi ha permesso di vedere dal vivo e per la prima volta un paese del terzo mondo: mi sono reso conto che le cose che valgono nella vita non sono quelle che ci propongono tutti i giorni i modelli occidentali".

Carlo Crespi sulla Cordigliera delle Ande (Perù)

Il Kilimangiaro è qualcosa di mitico. Ma perché avete scelto proprio quella vetta?
"Era la mia prima esperienza fuori dall'Europa. Inizialmente con i miei compagni avevamo deciso di andare in Nepal, poi però il periodo monsonico ci ha frenato e allora abbiamo scelto un paese africano all'equatore. Nell'affrontare il Kilimangiaro abbiamo incontrato paesaggi molto diversi tra loro: alle falde trovi la giungla, la vegetazione foltissima. Poi quando ti avvicini ai 5mila metri ci sono le lobelie e le seneci giganti. Poi più su il nulla, il deserto e il ghiaccio".
E dopo l'Africa?
"Dopo il Kilimangiaro ho fatto trekking nel triangolo d'oro, Laos, Birmania e Thailandia, sulle propaggini dell'Himalaya, a 3mila metri. Un viaggio nel cuore della giungla. E poi nel 1996 sono volato in Perù per affrontare la catena Andina".
Un'altra esperienza unica immagino?
"Di sicuro. Con altri cinque compagni siamo arrivati in Cordillera Blanca e da lì abbiamo scalato l'Huascaran, quota 6768 metri. Anche in questo caso siamo partiti in primavera. Durante il viaggio siamo entrati in contatto con l'antica civiltà Inca. Abbiamo seguito il Camino Real, che parte da Cusco, l'antica capitale dell'impero che sorgeva a 3400 metri e che porta al Machu Picchu, nascosto dalla giungla".
Dall'Africa all'America Latina. Cosa è cambiato?
"In primo luogo le temperature, molto più rigide in Perù. Inoltre, mentre il Kilimangiaro è un complesso isolato, la catena Andina è spaventosamente estesa. La gente vive tranquillamente a 4mila metri: è sorprendente".
Poi la risalita, fino alla California. Per fare cosa?
"Per vedere i luoghi dove è nata la nuova arrampicata su roccia, che ha segnato un grande cambiamento di mentalità rispetto all'alpinismo classico. Così ho scelto di raggiungere la Yosemite Valley, il luogo in cui tra gli anni '70 e '80 si è sviluppato il moderno free climbing".
Che però ha perso un po' del fascino delle grandi conquiste tra Ottocento e Novecento…
"L'alpinismo classico è imperniato sulla conquista delle grandi cime, che sono l'obiettivo, la meta da raggiungere. Nel free climbing invece si sceglie la via più difficile, si sperimenta un tipo di arrampicata fine a se stesso, senza l'obbligo di conquistare la vetta. In California mi sono arrampicato su grandi pareti di granito, ad una temperatura ideale, che mi permetteva di muovermi in calzoncini e maglietta".
Vogliamo affrontare il capitolo dell'Himalaya?
"Nel 2000 ho raggiunto con altri due compagni la zona dell'Everest, nel Nepal. Abbiamo scalato una cima tra quelle dei 6mila. Devo ammettere che la catena degli 8mila che ti si staglia davanti è un vero spettacolo, che va aldilà di ogni immaginazione".
Cosa ricorda dell'ascesa?
"Siamo partiti in ottobre, prima dei monsoni. Solo per iniziare a vedere le prime cime abbiamo dovuto camminare per 3 giorni. La sagoma dell'Everest l'abbiamo scorta solo dopo 5. Partenza da Katmandù, una città con due facce, medievale e moderna, baracche di asceti a fianco di internet café. Una città che è divenuta turistica dopo il boom della spiritualità e dell'esoterismo. Restano contrasti sconvolgenti: le pire dei cadaveri che bruciano e a lato lo sfrecciare delle auto. Da Katmandù abbiamo raggiunto la città di Lukla, il punto di partenza per le ascensioni nella zona dell'Everest. Abbiamo scelto di viaggiare in aereo perché in treno avremmo perso cinque giorni. L'esperienza dell'aeroporto è stata abbastanza singolare: si tratta di un "balcone" sospeso sul baratro, a picco su valli profondissime. Questo è il regno degli sherpa, degli abitanti delle montagne, dei portatori che hanno fatto la storia delle conquiste himalaiane".
E si ritorna a stretto contatto con la leggenda…
"Per scalare le vette dell'Himalaya ci si deve affidare a un sirdar locale, un capo spedizione, che a sua volta assolda i portatori. Noi ne avevamo tre, uno per il sirdar, uno che portava le provviste per i portatori, un cuoco e tre aiutanti. Etnicamente sono mongoli, differenti dai pachistani che invece sono arabi. Sono di religione buddista, vivono dai 2700 ai 4700 metri. Sono loro che ci hanno portato in cima".
Come è andata?
"Raggiunti i 3mila metri a Namche Bazaar il percorso a un certo punto si dirama, e la gente comincia a diminuire. Nel nostro caso la fase di acclimatazione è andata benissimo e l'organismo si è adattato in fretta all'alta quota. Sull'Himalaya questo è fondamentale, altrimenti si rischia grosso e non ci si riesce a muovere. Siamo arrivati fino all'ultimo campo base, a 4800 metri. Poi da lì le difficoltà hanno iniziato a farsi serie. E quando sei a 6mila metri tutto diventa terribilmente faticoso. Abbiamo impiegato 7 giorni per salire in vetta. Quella volta avevo con me la bandiera del Cai: l'ho issata sulla cima con orgoglio".
E in quel momento cosa ha provato?
"Quando riesci ad arrivare in vetta provi sensazioni del tutto particolari. Ma a dire il vero il momento più bello è quello che precede l'arrivo, quando puoi gustarti gli ultimi metri prima della cima e sei sicuro di avercela fatta. In fondo l'alpinismo non è uno sport, è una scelta di vita. E quando sei in vetta pensi già alla prossima scalata".
Come vogliamo chiudere l'intervista?
"Un grande scrittore di montagna ha detto: "Nel sangue di un alpinista c'è una goccia del sangue del primo uomo che ha attraversato un corso d'acqua su di un tronco d'albero"".
Il suo significato?
"Attualizzando il concetto potremmo dire che uno scalatore è simile a chi va in barca a vela, si deve cimentare inevitabilmente con la forza della natura".

Lorenzo Rinaldi

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